Come in uno scadente film già visto, la premier Giorgia Meloni è ritornata a Tunisi e ha rincontrato il presidente Kais Saied; poi ha ricevuto il premier libico Abdul Amid Dbeibeh, mentre ai primi di maggio aveva avuto un colloquio con il suo antagonista, il generale Haftar. Gli sbarchi dal mare, nel frattempo, hanno superato quota 50.000, tra cui 5.700 minori non accompagnati, malgrado un lieve rallentamento a maggio (8.155 contro 8.720 del 2022), dovuto probabilmente al maltempo e alle condizioni del mare. Il governo che aveva promesso di fermarli è in evidente imbarazzo.
Ora Meloni e Matteo Salvini sono un po’ in difficoltà nel chiedere le dimissioni del ministro degli Interni ad ogni sbarco, come facevano ai tempi di Luciana Lamorgese. Il blocco navale si è rivelato improponibile, mentre le limitazioni e il contrasto al lavoro delle Ong non hanno avuto gli effetti propagandati sulla riduzione degli arrivi. Non resta dunque, in questa logica, che ripiegare sul fronte esterno, anzitutto quello del contrasto delle partenze e dell’ingaggio dei Paesi di transito come vigilanti: una linea già sperimentata, che trova un sostanziale consenso presso i partner dell’Ue, da alcuni più convinto ed esplicito, da altri più implicito e reticente. La visita di due mesi fa non dev’essere però andata molto bene, se Meloni è dovuta tornare a Tunisi, reiterando le promesse di appoggio a Saied per sbloccare il prestito da 1,9 miliardi del Fondo Monetario Internazionale e provare a puntellare il regime sempre più autoritario instaurato a Tunisi. Chiaro quanto deprecabile lo scambio: risorse economiche e legittimazione politica per il governo che ha sepolto l’ultima speranza democratica suscitata dalle primavere arabe, in cambio di un’accresciuta sorveglianza sui porti d’imbarco. Saied però deve affrontare a sua volta almeno un paio di problemi, e non è detto che voglia o possa accontentare le attese del governo italiano: anzitutto, ha scatenato a sua volta una campagna xenofoba, agitando anch’egli lo spettro della sostituzione etnica.
Gli ivoriani, primo gruppo di sbarcati quest’anno (7.450), fuggono in gran parte dalla Tunisia, dove non sono più tollerati come in passato. In secondo luogo, arrivano dal mare anche migliaia di cittadini tunisini (3.688 nel 2023), in fuga da crisi economica, repressione politica, mancanza di prospettive per il futuro. I governi delle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo sono di solito più collaborativi quando si tratta di reprimere gli spostamenti di cittadini di altri Paesi, che possono essere imprigionati, scacciati o maltrattati impunemente, ma in questo caso trattenerli sul territorio contraddirebbe la campagna xenofoba, e rimandarli indietro non è facilissimo né a basso costo. Nei confronti dei propri cittadini, in genere persino i governi dal pugno duro mantengono qualche scrupolo, soprattutto quando hanno poco da offrire. Non meraviglia che qualche commentatore abbia già annunciato un mesto ritorno a casa a mani vuote della premier italiana.
Altre delusioni per il governo potrebbero arrivare dal secondo fronte esterno, quello europeo. Frenetiche trattative sono tuttora in corso sotto la regia della presidenza svedese, alla ricerca di un compromesso che possa segnare qualche passo avanti nella gestione del dossier asilo (non “immigrazione irregolare”, come recitano le veline filo-governative). Intanto però il fronte sovranista del gruppo di Visegrad si è già sfilato. I ricollocamenti dei richiedenti asilo in altri Paesi Ue si stanno sgonfiando, gli obblighi in capo ai Paesi di primo arrivo si stanno rafforzando (due anni di permanenza per le persone accolte, anziché uno), la penalizzazione economica di chi non accetta di accogliere si sta anch’essa stemperando. In ogni caso c’è da scommettere che l’idea di pagare qualche migliaio di euro pur di non partecipare ai ricollocamenti piacerà alla maggior parte dei governi, e in tal modo si continuerà a far gravare l’accoglienza sui Paesi di primo ingresso.
Il governo italiano rischia di trovarsi così di fronte a una malinconica alternativa: accettare un compromesso al ribasso, oppure votare contro e farlo naufragare, ritornando così alle regole della convenzione di Dublino. Ci sarebbe in realtà un’alternativa: quella della libera circolazione dei profughi già sperimentata con successo nel caso ucraino, ma nessuno sembra disponibile a estenderla agli altri rifugiati. In fondo, al di là della propaganda, sono altri i Paesi che accolgono i maggiori volumi di persone in cerca di asilo: Germania, Francia, Spagna. Allora si può anche continuare così, continuando a spacciare all’opinione pubblica la leggenda dell’Italia lasciata sola.