Perché si lavora? Presa sul serio, la domanda è tutt’altro che banale. Si lavora sicuramente perché si deve. Per garantirci un reddito, di conseguenza una vita il più possibile buona a noi e ai nostri cari. Ma si lavora anche per costruire qualcosa. È per questo che le terribili immagini delle macerie che deturpano il cuore dei borghi appenninici del Centro Italia colpiti dal terremoto sono così dolorose. Certo siamo in pena per le vite spezzate, per i feriti, per quanti ancora sono dispersi e non si sa – non sappiamo – se verranno trovati in mezzo alle macerie. Ma sono le macerie stesse a farci stare in pena, perché noi siamo fatti per costruire e quando vediamo la distruzione, il cuore si ribella.
C’è poi qualcuno che nel proprio lavoro tradisce questa vocazione a costruire. È il caso di chi, per profitto, per superficialità, per negligenza, ha contribuito a edificare una cosa fatta per distruggersi. Una terribile contraddizione di termini, che lega in qualche modo in questi giorni le macerie di Amatrice con quelle di Aleppo, distrutte non da un sisma ma da bombe costruite da uomini. Una terribile contraddizione richiamata dal vescovo di Rieti, Domenico Pompili, durante i funerali delle vittime di Amatrice ed Accumuli: «Il terremoto non uccide. Uccidono le opere dell’uomo». Uccide il frutto avvelenato di un lavoro che ha perso il suo significato, che è la costruzione.
Costruzione per una vita buona, nostra, dei nostri familiari, dei nostri clienti, di chi serviamo con il nostro ingegno, le nostre abilità, la nostra applicazione. Senza questo significato del lavoro restano solo la fatica e il profitto. Il secondo deve essere sempre più grande, la prima sempre minore, fino a scomparire. Così ritorna sempre più incalzante la questione della 'necessità del lavorare': se non avessimo la necessità di guadagnare, avrebbe ancora senso lavorare? La domanda non è affatto accademica, anzi è presente nell’agenda di molte forze politiche che – in vario modo – trattano di un reddito 'di cittadinanza' (teso non tanto a riavviare al lavoro e all’inserimento sociale che ne consegue, ma a liberare dalla necessità di avere un lavoro retribuito) o nell’agenda di quegli intellettuali che prefigurano nuovamente una 'fine del lavoro', magari in seguito ad una nuova rivoluzione industriale che 'affranchi' definitivamente l’uomo dalla fatica.
Ma c’è un modo di lavorare che, in questi giorni terribili, tutti abbiamo davanti agli occhi. Quello dei soccorritori, dei vigili del fuoco che scavano tra le macerie e piangono perché non sono arrivati in tempo. Il lavoro dei volontari che offrono gratuitamente la loro fatica per ri-costruire speranza in comunità che rischiano la distruzione, insieme a quella delle loro case.
Quanto vediamo ci restituisce il volto più vero, più umano del lavoro, che certo è fatica ed è anche profitto («la giusta mercede»), ma soprattutto è significato. Cooperare all’opera creatrice di Dio, che è costruttore, sempre. Allora mi pare che oggi si debba ricordare l’esigenza, la necessità di sviluppare un’educazione al lavoro. Perché il desiderio di costruire è inciso nel cuore dell’uomo, ma poi si incrosta di mille scorie che nel tempo rischiano di non permettere più di coglierne l’essenza più profonda e restano quindi solo fatica e profitto.
Tutti noi adulti abbiamo bisogno di questa educazione, l’educazione di chi lavora ad Amatrice e negli altri paesi distrutti e non si ricorda quasi della fatica, né si sofferma sul profitto, ma ha ben chiaro il senso del suo lavorare. Tra pochi giorni i nostri ragazzi torneranno a scuola. I più tra le mura della propria classe, alcuni probabilmente sotto una tenda perché la loro scuola non ha più mura. L’augurio è che possano trovare adulti, insegnanti, educatori, che con il loro lavoro rendano testimonianza di quanto conti il desiderio di costruire e di come questo desiderio apra mente e cuore al conoscere e all’apprendere. Così si ricostruisce un paese, non solo liberandolo dalle macerie di pietra, ma anche dalle macerie di un significato smarrito, che attende tenacemente di essere ritrovato.