Da metà novembre, secondo le stime delle Nazioni Unite, siamo in otto miliardi sul pianeta Terra, un miliardo in più in confronto al 2011, quattro miliardi in più del 1974. Nel breve arco di cinquant’anni la popolazione mondiale è raddoppiata. E già questo dato dovrebbe farci riflettere sul cambiamento profondo verificatosi nell’arco di due generazioni. Il mondo di oggi non è più quello di ieri: è più popolato ma soprattutto più diversificato, meno europeo e meno occidentale. Non siamo abituati a pensarci parte di un pianeta così plurale, ci manca una cultura della complessità. Di qui la nostra miopia nell’accorgerci della guerra: per noi significa l’Ucraina vicina, ma per altri miliardi di persone – molti di più di noi – prende il nome delle decine di conflitti lontani, spesso ignorati o dimenticati, delle tante tragedie che gli esperti definiscono “a bassa intensità”, ma fanno decine migliaia di vittime.
Il nostro mondo così vasto, diverso e popoloso è difficile da afferrare con un solo sguardo: ci vuole cultura e riflessione per capire ciò che David Quammen definisce uno stato di policrisi, una situazione cioè di molteplici crisi permanenti e contraddittorie. Questo spiega la nostra impotenza nel trovare soluzioni alle tensioni che si accavallano, ad esempio di dare risposte ragionevoli al movimento migratorio, un moto incessante e inarrestabile che per la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta si associa alle parole “speranza”, “futuro”, “opportunità”, “necessità” mentre per i Paesi più ricchi spesso diviene simbolo di minaccia e insicurezza.
Il mondo degli otto miliardi si è in larga misura occidentalizzato nei gusti e costumi, ma non vede nell’Occidente il proprio centro: è un mondo policentrico e disordinato. Il pianeta assomiglia sempre più al poliedro caro a papa Francesco, un panorama diversificato e mutevole, un orizzonte dinamico e on the move, tanto nel senso di un’accelerazione dei processi quanto in quello dell’estrema mobilità globale. Cento milioni sono i rifugiati censiti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite (Unhcr): è un mondo in movimento oltre che in mutamento. « For the times, they are a-changin » (perché i tempi stanno cambiando) potrebbe ancora cantare Bob Dylan.
Certamente tali trasformazioni demografiche vedono l’Europa invecchiare, diventare più paurosa e ansiosa, sulla difensiva, mentre continenti più giovani come l’Africa, hanno una popolazione intraprendente ed entusiasta, desiderosa di muoversi e di costruire il proprio futuro. Ecco perché, sebbene siamo otto miliardi, in Occidente lo sentiamo di meno o ci preoccupiamo quando vediamo l’affluenza degli altri.
Siamo chiamati a guardare con più interesse e meno superficialità al poliedro: osservare al cambiamento d’epoca non con il conformismo della paura ma con l’empatia della solidarietà. Invece che concentrarci soltanto sul nostro “piccolo mondo antico”, non bisogna perdere la visione d’insieme, guardando all’orizzonte del mondo per immaginare soluzioni e nuove prospettive. D’altronde, com’è noto, “non esiste un pianeta B”: la terra è l’unica che abbiamo, in cui imparare a convivere. Non c’è diversità, né distanza che possa cambiare questo stato di fatto. Un sentimento umanitario e una ragionevole visione delle cose dovrebbero spingerci ad affrontare la realtà con più forza e responsabilità.
Si è appena conclusa la Cop27 in Egitto con un accordo dell’ultimo momento, ma al ribasso, e molte parti lo definiscono insoddisfacente. La pandemia ci ha ristretti un po’ tutti nell’autoconservazione, lasciandoci una forte tentazione all’egoismo. La guerra sta distraendo gli Stati e i popoli dalla grave emergenza ambientale, che tuttavia colpisce ovunque, com’è accaduto di recente in Pakistan con l’inondazione di circa un quinto del Paese.
Non è questione di essere in troppi, come sostengono alcuni: il problema è la mancanza di solidarietà e di un progetto comune. Siamo un “noi” più grande che ci rivela le conseguenze di ognuno su tutti gli altri: non possiamo più sfuggire a tale realtà. Un nuovo mondo è in gestazione dove ci può essere spazio per tutti: perché ciò non divenga una maledizione occorre accettare la responsabilità del convivere. Politici impauriti allarmano le nostre società, additando il mondo come una minaccia, come una giungla. Tuttavia, non c’è nessuna giungla: c’è solo un mondo che cresce, spera, sogna e che è più variegato di prima. Le religioni lo stanno capendo, stringendo nuovi legami tra di esse. Lo devono capire anche gli Stati: si tratta di farsi compagni di viaggio di tanti popoli, senza paure e senza pregiudizi, con responsabilità, con visione e con simpatia.