Caro direttore,
«La giustizia non è di questo mondo, ma dell’altro», così un indimenticabile Paolo Stoppa-papa Pio VII rispondeva al Marchese del Grillo interpretato da Alberto Sordi. Verrebbe da dire che con la 'storica' (a suo modo) sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea del 2 aprile scorso il paradigma è cambiato. I giudici hanno chiaramente stabilito come, rifiutando di accogliere il numero concordato di «richiedenti protezione internazionale », la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca sono venute meno agli obblighi derivanti dai Trattati europei. Ricordiamo i fatti: nel settembre 2015, Grecia e Italia si trovarono a gestire l’arrivo di profughi siriani che sfuggivano dallo spaventoso conflitto in atto.
Abbiamo tutti negli occhi le immagini del piccolo Alan Kurdi ritrovato esanime sulle coste turche: sembrava solo addormentato e invece quel bambino aveva lasciato questo mondo. E con lui tantissimi altri bambini, donne, uomini, giovani e anziani. Il mondo, l’Europa intera davanti a quelle immagini finalmente reagirono. L’Unione Europea decise una ricollocazione, tra i Paesi aderenti alla Ue, di 40mila migranti richiedenti protezione internazionale. Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca rifiutarono di mantenere gli impegni presi. La Polonia non ha accolto le 100 persone previste; la Repubblica Ceca aveva dato una disponibilità per 50 persone e ne ha accolte solo 12; l’Ungheria di Viktor Orbán si è chiusa in un silenzio assordante.
I tre Stati hanno giustificato il loro passo indietro con motivi di sicurezza e di ordine pubblico che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha considerato del tutto infondati. I giudici hanno ripetutamente ribadito che l’articolo 72 Tfue ( Trattato fondativo dell’Unione Europea), invocato dai tre Paesi del blocco di Visegrad, non permette ai singoli Stati di non rispettare le decisioni prese a livello sovranazionale se non sulla base di elementi concreti tali da dimostrare l’effettivo rischio per la sicurezza nazionale. In realtà, come poi si è dimostrato, il richiamo a motivi di sicurezza e di ordine pubblico da parte di Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca era del tutto pretestuoso.
La sentenza della Corte di Giustizia, seppur tardiva, è un ennesimo schiaffo a chi, come la Polonia, ha compromesso l’autonomia e indipendenza della magistratura e a chi, come l’Ungheria, continua il suo cammino verso una dittatura, più o meno velata. E, soprattutto, è una conferma di princìpi che saranno fondamentali per il futuro democratico e solidale dell’Europa in cui crediamo. L’Unione Europea – con le luci che conosciamo e le ombre che contrastiamo; con i passi in avanti e i passi indietro che troppo spesso neghiamo – ha, nelle sue istituzioni, gli anticorpi per reagire ai pericolosi virus che minano le sue fondamenta. Stiamo parlando di quell’Europa solidale che dovrebbe bloccare ogni tentativo di chiusura politica, economica e sociale. Con quella sentenza la Corte ha ribadito, ancora una volta, che la Ue è prima di tutto una comunità fondata su valori e princìpi non negoziabili e non calpestabili, quali quelli dello stato di diritto e della solidarietà.
Avvocato ed europarlamentare