Sono passati luglio e agosto, i mesi centrali dell’estate, e le speranze di coloro che pensavano che il caldo estivo avrebbe, se non stroncato, almeno frenato la diffusione del Covid-19 si sono rivelate illusorie. Il virus continua a circolare; se ne può discutere il livello di aggressività, ma non si può negare che la pandemia continua a essere presente nel mondo e che la sua sconfitta appare tragicamente incerta, sia per quel che concerne i tempi, che per quel che concerne le modalità. In questo quadro, restano aperte tutte le grandi questioni attivate dalla comparsa del virus: questioni che nessuno riesce a risolvere, probabilmente perché obiettivamente insolubili, almeno nel breve e nel medio periodo. Mi limito a citarne solo tre, ma potremmo aggiungerne diverse altre.
La prima questione è quella di come conciliare, soprattutto nei Paesi caratterizzati da un alto tasso di scolarizzazione pubblica, il carattere "aggregativo" dei sistemi scolastici con la prima di tutte le indicazioni suggerite per frenare la diffusione del virus, quella di imporre il cosiddetto "distanziamento sociale" che su queste colonne si preferisce definire "distanziamento fisico". Proposte ne sono state fatte e attuate, tra le quali la più interessante e praticata è stata (e prevedibilmente sarà) quella di sostituire se e quando necessario la didattica "in presenza" con la didattica "a distanza", ma c’è poco da illudersi: chiunque abbia esperienza di scuola ben conosce la differenza che c’è per un docente tra il guardare in faccia uno studente e guardare lo schermo di un computer (e viceversa). Il punto è che la sospensione della didattica "in presenza" lascia nelle singole generazioni di studenti cui viene fatta subire ferite culturali che ancora non sappiamo calcolare, ma che certamente emergeranno in futuro e potranno essere, oltre che laceranti, causa di profonde discriminazioni. D’altra parte alla chiusura delle scuole che si rivelano focolai del virus sembra che non ci sia, allo stato attuale delle cose, alternativa.
La seconda questione che appare attualmente insolubile è quella della vaccinazione contro il Covid-19. Tutti gli scienziati concordano nel non vedere all’orizzonte altra modalità realistica di affrontare il virus. Nessuno però si sbilancia troppo nel dare indicazioni concrete: a) riguardo i tempi in cui il vaccino sarà a disposizione in un numero adeguato di dosi (milioni di milioni); b) se, per abbattere questi tempi, sia lecito, scientificamente ed eticamente, ridurne la sperimentazione e rinunciare a praticarla su "volontari", "assoldando" con congrue retribuzioni, magari nei paesi del Terzo mondo, i soggetti da coinvolgere nelle complesse (e rischiose!) pratiche sperimentali; c) a chi fornire prioritariamente il vaccino: c/1 se ai cittadini dei Paesi che per primi riusciranno a produrlo, c/2 se in base alle classi di età, c/3 se (ahimè!) a chi sarà in grado di pagarne il prezzo di mercato; d) su chi si dovrebbero scaricare i costi non solo della ricerca per mettere a punto i vaccini, ma quelli (ancora ben lontani dall’essere determinati) della loro produzione; e) se la somministrazione dei vaccini debba avvenire su base volontaria o debba essere resa obbligatoria per legge; e infine f) come sarà possibile fronteggiare la contestazione, già pienamente avvertibile, dei no-vax. Gli unici parlar chiaro sono papa Francesco e il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres: assicurare l’opportunità della vaccinazione, non appena sarà possibile, gratuitamente a tutti, nessuno escluso.
La terza questione è la più sottile, ma è anche nello stesso tempo, quella antropologicamente più rilevante. Agli osservatori più attenti non sarà sfuggita l’alterazione dei rapporti tra i 'sani' e i 'contagiati', includendo in questa categoria non gli affetti da coronavirus, ma tutti coloro che pur non avendo sintomi di nessun genere sono positivi ai tamponi, vincolati alla quarantena e obbligati almeno moralmente a 'distanziarsi'. È illusorio pretendere che non si attivi uno 'stigma' (ancorché sgradevolissimo da ammettersi) nei confronti di queste persone. Ed è ancora più illusorio ritenere che queste persone poste di fronte all’evidenza (in genere inaspettata) della loro vulnerabilità non debbano sentirne un ruvido contraccolpo, in termini di autostima, di perdita dii apertura fiduciosa al futuro, di indebolimento delle loro capacità relazionali. È, questa, una grande sfida che l’umanità, agli inizi del XXI secolo, sembra non essere pronta ad affrontare: lo stesso moltiplicarsi degli appelli alla solidarietà (spesso inascoltati) mostra che proprio questo è il punto debole dell’umanità di oggi. Per questo lo stigma sociale che, ci piaccia o no, grava su chi è portatore di coronavirus è una sfida che va affrontata a ogni costo, perché mette in gioco la dinamica più preziosa della nostra identità antropologica, quella relazionale.