La crisi libica e quella iraniana, due potenti detonatori di instabilità che rendono il Nordafrica e il Medio Oriente un’autentica polveriera hanno entrambe in comune l’assenza – ma dovremmo forse chiamarla la latitanza – dell’Europa e, per quello che ci riguarda da vicino, dell’Italia. Il tragico palcoscenico libico sta mostrando impietosamente l’inefficacia e l’irrilevanza di un’Europa disunita e l’altrettanto flebile influenza che l’Onu incarna in simili circostanze.
All’assedio di Tripoli, ai bombardamenti sempre più mirati e letali condotti dal generale cirenaico Khalifa Haftar, forte del sostegno della Russia di Putin con i suoi "contractor", dell’Egitto di al-Sisi con il suo appoggio logistico e degli Emirati del Golfo nel ruolo di grandi finanziatori corrisponde, sull’altro fronte, la decisione di Ankara di inviare truppe a sostegno del sempre più fragile governo di Fayed al-Serraj: eloquente suggello della politica di potenza che il neo-ottomanesimo di Recep Tayyip Erdogan sta perseguendo in vista di una spartizione (probabilmente con Mosca, come si potrà forse capire domani dall’incontro fra il raïss e Putin) dei ricchi bacini petroliferi e di gas naturale di tutta l’area orientale dell’antico Mare Nostrum.
Sfolgora in questo drammatico scorcio di inizio anno, dove si assommano odi tribali, distruzione e morte per la popolazione civile e inaudite sofferenze per le migliaia di profughi e migranti incarcerati a ridosso delle coste libiche, la crisi profonda del multilateralismo nell’affrontare le controversie politiche, militari, diplomatiche. La seconda preoccupante crisi in atto, quella iraniana, la cui temperatura si è surriscaldata con un’impressionante mobilitazione popolare anti-americana all’indomani dell’uccisione del generale Qassem Soleimani, che sta innescando una catena di reazioni dall’esito imprevedibile (e che tuttavia ha già portato al disimpegno degli accordi sul nucleare del 2015 e alla richiesta di espulsione dei soldati americani presenti in Iraq da parte del Parlamento di Baghdad) ne è ulteriore dimostrazione.
In altre parole, ciascuno degli attori sul campo sta unilateralmente giocando la propria partita, in taluni casi probabilmente indifferente (o ignaro, ma poco cambia) delle possibili conseguenze. E gli assenti illustri? La Francia, la Germania? L’Italia? E l’Unione Europea? Inutile pretendere da un club di nazioni che funziona più che decorosamente nel proprio cortile interno, ma assai poco al di là dei suoi confini, una rilevanza politica e strategica in un contesto in cui più che le diplomazie ad aver voce sono le armi e gli eserciti. Non per questo però ci si deve sottrarre. L’Europa non può certo partecipare a una guerra che esula dalla sua missione morale e dallo spirito dei suoi Trattati. Ma può far valere la forza e il peso dei singoli Stati, quelli maggiormente interessati – e potenzialmente messi in pericolo – dall’instabilità della regione.
L’Italia, per cominciare. Le cui lodevoli intenzioni di allestire conferenze di pace e il parimenti eccellente lavoro svolto dalla Farnesina naufragano di fronte al pericolo concreto di trovarsi a poche centinaia di chilometri da una Libia in grado di minare la nostra sicurezza nazionale su almeno tre fronti: quello del terrorismo jihadista, quello di flussi migratori resi di nuovo tragedia e quello energetico. Pericoli reali, concreti. Che abbisognano di iniziative altrettanto concrete, di diplomazie a tutto campo, di accordi bilaterali e multi-laterali, quelli che occorrono e che di volta in volta ser- vono, con una strategia che abbia almeno due punti fermi: la riconquista del ruolo che un Paese con la nostra forza economica e il nostro peso ha giocato in passato e dovrebbe ancora giocare nel Mediterraneo e soprattutto l’abiura di un metodo antico come il vizio di cui è figlio, quello di far affidamento sugli altri per risolvere le nostre crisi e contemporaneamente di tener buoni entrambi i contendenti: se vincerà Haftar saremo sonoramente sconfitti, se vincerà al-Serraj il merito andrà alla Turchia e non a noi o all’Europa.
Mai come questa volta ciascuno gioca in proprio, anche se al tempo stesso nessuno di noi è davvero solo: l’Europa intera ha tutto da perdere dalla propria ignavia e tutto da guadagnare da un’azione concertata. Gli stessi francesi - la cui obliqua doppiezza fin dall’epoca dello sciagurato regime change messo in atto unilateralmente in Libia nel 2011 da Sarkozy e di cui tutti, loro compresi, stiamo scontando le conseguenze - stanno cominciando a capirlo. Occorre un Paese maturo per navigare in queste acque ancora sconosciute, in larga misura prive dell’ombrello benevolo dei grande alleati, come gli Stati Uniti. E dobbiamo imparare in fretta, perché la Storia corre più veloce delle nostre incertezze.