Non ho alcuna intenzione di entrare nel dibattito in merito al libro, 'Dal profondo del nostro cuore', presentato all’inizio come scritto a quattro mani da Joseph Ratzinger-Benedetto XVI e dal cardinal Sarah e poi ridimensionato come un mero testo chiamato ad accogliere, accanto agli scritti del cardinale, una suggestiva riflessione del Papa emerito sul celibato sacerdotale.
Mi interessa di più rilevare che anche in questa circostanza sono emersi due diversi punti di vista in merito all’ontologia del matrimonio, punti di vista con cui la Chiesa si confronta da secoli, senza intenzionalmente (e saggiamente) voler stabilire il primato di uno dei due o – il che è lo stesso – senza voler subordinare l’uno all’altro. Il primo punto di vista è quello del cosiddetto matrimonio naturale (o giuridico), il secondo quello del matrimonio cristiano (o sacramentale).
Il primo punto di vista vede correttamente nel matrimonio un’istituzione antropologica fondamentale, conosciuta da tutte le culture (anche se poi elaborata e declinata giuridicamente in ogni cultura secondo modalità proprie); il secondo punto di vista percepisce, altrettanto correttamente, nel matrimonio sacramentale cristiano l’apertura di un orizzonte assolutamente nuovo, irriducibile a quello elaborato nella storia da qualsivoglia ordinamento giuridico, un orizzonte che si è rivelato capace di operare nell’esperienza umana una vera e propria metamorfosi. Il matrimonio giuridico manifesta in modo esemplare la potenza del diritto, come pratica sociale, cioè come prassi volta a creare status familiari, non solo a carico dei coniugi, ma anche e soprattutto dei figli e delle rispettive famiglie di appartenenza dei coniugi: status che poi si strutturano attraverso divieti, interdizioni, tabù di tale forza, da venire interiorizzati dalle coscienze, fino a non essere più percepiti come mere 'proibizioni'.
Sposarsi significa, in tutte le culture, ubbidire a un vero e proprio comandamento sociale, volto a garantire l’ordine delle generazioni, un comandamento cui uomini e donne rendono omaggio, creando e accettando liberamente un vincolo, come quello coniugale, al quale si ritiene che nessuno abbia il diritto di sottrarsi.
È per questo che perfino nelle culture in cui la coniugalità appare, almeno ai nostri occhi, fragilissima (in quelle culture cioè che banalizzano fino all’estremo la possibilità del ripudio e, oggi, quella del divorzio) la differenza tra una sposa e una convivente è assolutamente marcata, come è marcata quella tra figli legittimi e non legittimi, tra 'parenti' e 'non parenti'. Ben si spiega, di conseguenza, perché la Chiesa, come ordine sociale, abbia elaborato nei secoli un proprio diritto matrimoniale, fissando al suo interno numerose interdizioni, come quella che ha per oggetto l’identità sacerdotale, ritenuta incompatibile con quella coniugale.
Si tratta di un’interdizione giuridica, non dogmatica (come è giusto rimarcare), che qualifica solo la Chiesa Latina, ma che ha il peso di tutta la tradizione canonistica, che sarebbe sciocco banalizzare o valutare come mera accidentalità storica (sarebbe come ritenere accidentale la stessa storicità della Chiesa, valutazione, ahimè, fin troppe volte reiterata, anche se storiograficamente infantile). Il matrimonio sacramentale, diversamente da quello giuridico, non ha le sue fondamenta in un’esigenza sociale. Esso si radica nella fede e nell’intelligenza dell’annuncio evangelico, dell’annuncio cioè di una nuova fase della storia della salvezza, una fase nella quale il matrimonio, prima ancora che garantire l’ordine delle generazioni, esprime l’irrevocabilità del sì divino all’uomo nella definitività e nella irrevocabilità del sì coniugale.
Il mutuo donarsi sacramentale dei coniugi cristiani può essere compreso solo a partire dal modello del rapporto Cristo-Chiesa e il celibato sacerdotale (non a caso sconosciuto nell’Antico Testamento) viene a esprimere (come ha limpidamente scritto Joseph Ratzinger) «in una maniera più radicale e diretta del matrimonio lo specifico della nuova fase della storia della salvezza iniziata con Cristo». Si tratta quindi di un’esigenza teologica, che supera nettamente quella canonistica, senza però negarla: e questo spiega il loro intrecciarsi (per dir così), cioè da una parte perché la canonistica abbia dedicato tanta attenzione alla teoria giuridica della nullità sacramentale del matrimonio cristiano e dall’altra perché la teologia abbia sempre preso sul serio e rispettato i formalismi giuridici della canonistica, anche nelle loro esasperazioni più tecnicistiche. Il risultato di questo reciproco rispetto ha dello straordinario: la Chiesa cattolica non ha alcuna difficoltà ad accettare il clero 'uxorato' delle Chiese di rito orientale in comunione con Roma, pur mantenendo per la Chiesa Latina il celibato sacerdotale come testimonianza (scrive sempre Ratzinger) «resa con tutta la sarx (cioè con tutta l’esistenza terrena) alla realtà della fede».
Il dibattito, che si è riacceso con tanta vivacità, sull’ordinazione sacerdotale di uomini coniugati, deve quindi essere correttamente ricondotto a questi due paradigmi, la cui mediazione va, in ultima analisi, affidata esclusivamente alla Chiesa cattolica stessa e al suo Magistero. L’importante è capire che come realtà di incarnazione la Chiesa sente il dovere di impegnarsi con tutte le sue forze per far convergere sapienza giuridica e riflessione teologica, pur nella consapevolezza della differenza strutturale di queste due esperienze e dell’impossibilità di farle, prima o poi, pienamente coincidere.