Una scena tratta dal film 'Benzine' della giovane regista tunisina, Sarra Abidi
Caro direttore,
scrivo da Agadir, Marocco, dove partecipo con il mio film 'L’ordine delle cose' al Festival internazionale Cinema e Migrazioni. Ho appena visto un film che mi piacerebbe poter vedere insieme ai tanti italiani che credono nel Governo Di Maio-Salvini e nella sua soluzione al problema immigrazione. Il titolo è 'Benzine', di una giovane regista tunisina, Sarra Abidi. È un’ora e mezza di immersione nel dolore e impotenza di due genitori che hanno visto partire e scomparire nel nulla il proprio figlio, partito per l’Italia su una barca di trafficanti libici e forse mai arrivato. Scomparso. Il dolore brucia dentro alla madre e fa impazzire il padre. Non sanno come cercarlo. Provano a trovare i colpevoli del suo viaggio.
Ma sanno bene che la colpa sta nel loro destino. Destino da cui non sanno come scappare. Genitori. Madri, padri e figli che non possono nulla di fronte a disuguaglianze e ingiustizie che trascinano le loro vite nel mondo globale di oggi. Nel film l’unico legame dei genitori con il figlio, con la speranza di ritrovarlo è un cellulare. Connessi e sconnessi. Sradicati. Non è una condizione solo di chi sta al di là del mare. Di chi rischia di morire nel mare. È una condizione che si diffonde sempre più. Pensiamo ai nostri figli, ai nostri genitori. Alle nostre sconnessioni, partenze, delusioni.
Al sapere che non c’è alternativa alla fuga, alla speranza in un altrove che è pronto a sfruttarti. Al sentirsi sballottati da illusioni digitali e relazioni virtuali. Le vite di milioni di esseri umani sono sempre più in balìa di queste instabilità. Ad alcune di queste vite, tra cui le nostre di italiani, è per ora ancora concesso di potersi sradicare legalmente, ad altre è ancora negato. Così le prime si sradicano senza fare notizia e con un dolore apparentemente tollerabile, le seconde creando panico e bruciando di dolore. Ma la base è la stessa. Salvini e Di Maio ci dicono che facendo aumentare ingiustizie e dolori per gli altri noi avremo più possibilità di sentirci meglio. Non ci dicono che in questo modo evitiamo di lottare contro quelle ingiustizie e quei dolori, che presto si estenderanno talmente da diventare sempre più pericolose per tutti noi, figli, padri e genitori.
Man mano perderemo il diritto a sradicarci legalmente e senza dolore e tutto sarà più duro, anche per noi, non solo per loro. Pensate a vostra madre che non sa se siete vivi o a vostro figlio che potrebbe essere morto o a vostra sorella che potrebbe essere schiava di stupratori amici delle polizie più 'democratiche'.
Di questo stiamo parlando. Per essere concreti: in Australia ci sono 500 italiani detenuti in centri di espulsione, negli Stati Uniti si stimano circa 200mila italiani 'clandestini', in Inghilterra i lavoratori italiani sono tra i primi 'nemici' che hanno spinto la crescita della Brexit. Tra quanti anni i cinesi arresteranno ed espelleranno con la forza i nostri figli in cerca di lavoro? Questo è in gioco. Se non vogliamo che questo gioco continui ad accelerare verso un baratro di insicurezza globale, dobbiamo metterci in cammino, scendere in piazza, usare i corpi e le menti, insieme.
Non per spirito umanitario nei confronti di chi sta male, ma per responsabilità comune nei confronti dei nostri destini, connessi e sconnessi nello stesso tempo. Dobbiamo farlo superando vecchie appartenenze e consumate sigle, facendo nascere un’energia di cambiamento completamente nuova, che sappia unire due princìpi oggi apparentemente inconciliabili: il diritto alla libera circolazione e la lotta alle diseguaglianze economiche e sociali. L’identità nazionale ed etnica di troppi movimenti sindacali e sociali è un forte limite alla lotta per una nuova giustizia globale: se dividiamo i diritti su base etnica lasciamo che la globalizzazione dei mercati accresca i diritti di pochi ancora più indisturbata.
Difendere gli italiani in un mondo di lavoratori globali significa non difendere i diritti del lavoro. Difendere gli italiani in un mondo di culture intrecciate significa non difendere la dignità umana. La manifestazione #Indivisibili di domani, sabato 10 novembre, a Roma può essere l’inizio di questa nuova energia. Nasce sull’urgenza di denunciare la pericolosità del Decreto sicurezza e immigrazione e di chiedere ai deputati – che ancora possono – di fermarlo, ma può portarci molto oltre.
Può portarci a saper riconoscere nel dolore di una madre tunisina il dolore di una madre. Può darci la forza di lottare insieme perché il dolore di nessuna madre debba esistere. Per far sì che ciò accada, nessun figlio deve essere costretto a rischiare la vita per cercare un lavoro e nessun figlio deve avere un lavoro che lo sfrutti per la ricchezza sproporzionata di altri, di pochissimi altri. Sta qui la sfida, unire libertà di movimento con crescita della giustizia sociale. Oggi di fronte all’arroganza della soluzione nazionalista può sembrarci una sfida perdente, ma ha in realtà la forza e l’energia di un sogno ben più forte e trascinante. Proviamo a seguirlo, insieme, indivisibili.
Regista e sociologo, Forum
Per cambiare l’ordine delle cose