La speranza al centro del Giubileo non ha solo una possibile lettura in termini di fede ma interroga tutte le coscienze, e la stessa società, sui fondamenti della vita personale, della comunità e del futuro. In questo spirito, dall’inizio dell’Anno Santo, proponiamo ogni domenica riflessioni d’autore, laici e cattolici, ispirate alla domanda giubilare: in cosa speriamo?
Penso la speranza come condizione paradossale: di totale rinuncia a ogni aspettativa e proiezione nel futuro. Immaginare che una qualche soluzione buona (migliore) prenderà forma, farlo però senza visualizzare, senza ammantare di ansiose prefigurazioni, nulla. Affidarsi alla vita, piuttosto: consapevoli della forza che è insita nel praticare questo genere di fiducia sospesa, una forma di apertura d’animo che non ha parole, né immagini, per venire detta. Nell’attesa, nella sospensione del tempo, fidarsi. Da anni tengo appesa alla parete del mio studio la fotografia di un uomo di spalle nell’attimo prima di tuffarsi da una barca. La foto è di Henri Cartier-Bresson, formidabile “immortalatore” di istanti sospesi. E un tuffo, sempre è un salto nel vuoto: un vuoto visibile, monitorato da chi sta per tuffarsi, ma da un punto di vista e in una condizione che sono comunque di incertezza. Il corpo toccherà senza attrito la superficie dell’acqua? E come andrà a fondo per poi veloce riemergere su, in alto, tornando a riempire d’aria i polmoni senza stress di sorta? Mai è dato sapere come andrà per davvero: per questo, un tuffo significa comunque attimi di adrenalina, ebbrezza elettrizzante mentre si sta in aria prima di raggiungere l’acqua. In quella sospensione del tempo rintraccio una forma di speranza. Speranza per approssimazione, certo, come di certo speranzosa è la fiducia che tutto andrà bene. Speranzoso il pensiero che campeggia onnipresente in quel tempo brevissimo subito prima di abbandonarsi, lasciar andare i timori, intanto in un moto spontaneo augurandosi il bene: secondo un ottimismo che risulta naturale tanto quanto la paura che con esso convive.
Quando sento di assegnarmi a soluzioni che mi sono sconosciute, ma della cui azione positiva d’istinto mi viene da essere sicura, allora, più che di sperare, mi abita la sensazione di stare coltivando al meglio la speranza. Perché è in quei momenti che più nutro fiducia nel tempo, nelle sue risorse. Fede laica, la mia, rivolta a forme di cura e a rimedi ancora invisibili, ma che immagino, intravedo, insiti tra le pieghe del domani. Istintivo ottimismo sulla capacità del tempo di riassestare e riequilibrare le cose: quella anche è una forma di speranza. Oltre che alla fotografia del tuffatore, sono particolarmente affezionata a un passo di Theodor W. Adorno contenuto in Minima moralia (ricopiato in bella calligrafia, lo conservo in un quaderno). Il passo dice così: «La zingara che predice l’avvenire, ammessa attraverso la porta principale, si riscatta nella signora in visita e si trasfigura in un angelo salvatore. Essa libera dalla maledizione la felicità della vicinanza immediata, sposandola alla estrema lontananza. È di questo che è in attesa tutta la vita del bambino, e così deve continuare ad attendere chi non dimentica il meglio dell’infanzia».
Soprattutto mi interpella l’ultima frase. Quel «chi non dimentica il meglio dell’infanzia» che Adorno suggerisce come “linea” guida nel nostro attendere e sperare di adulti. «Il meglio dell’infanzia»: in che senso intenderlo? Ricordare quale nozione di futuro e di speranza si possedeva da piccoli non è evidente. Parlando di infanzia, penso a infanzie che si svolgono al sicuro, lontane da guerra, miseria, fame – infanzie di bambini ai quali sia data la legittima serenità di essere tali, e non drammaticamente e precocemente troppo maturi, privati di risa, e giochi, e sogni. “Come sarà oggi?” pensa un bambino al risveglio, magari in vacanza, davanti alla prospettiva di un lungo giorno in cui tutto potrà incantarlo, meravigliarlo, farlo divertire. Il sentore felice che qualcosa accadrà: lui non sa cosa, ma quel qualcosa si mette ad aspettarlo e cercarlo con curiosità, con bramosia, anche. In quella trepidazione, tutto quanto è imprevedibile si incunea nella sua mente infantile alimentando una attitudine alla sorpresa che è l’opposto del viraggio verso pensieri di catastrofe dei nostri ragionamenti di adulti.
"Sorpresa” come stupore pieno di meraviglia, per nulla atterrito, mai sdegnato o arrabbiato. Sorpresa come apertura a quanto accadrà – perché comunque vada, qualcosa accadrà. La certezza che l’ignoto sarà portatore di regali, un confidare in quanto di buono potrà succedere che un bambino coltiva e ripete a sé stesso, quello anche è «il meglio dell’infanzia». Un autoconvincersi che comunque vada, la vita troverà come proporre occasioni positive, divertenti, fatti lontani dalle disgrazie. A partire di lì, da quella cieca certezza, sperare. Si spera talvolta per disperazione, colmando i vuoti del cuore proiettandolo oltre ogni ostacolo, spostandolo in avanti nel pensiero e così riempiendo quei vuoti di auspici, auguri, preghiere, parole ripetute tra sé e sé per farsi coraggio, paesaggi mentali guardati e riguardati di nuovo dentro sé, perché il farlo, nella nostra stessa mente infonde quiete – gioia, persino. Ci fa sperare il risolversi di una tensione, lo sciogliersi di un qualche nodo che impediva passi avanti. Ci fa sperare immaginare che una fase tesa e contorta dissiperà le sue nebbie perché i periodi di sciagura prima o poi finiscono. Perché, come che sia, coltiviamo l’oscura certezza che “qualcosa accadrà”.
Ma esiste anche un’altra forma di speranza, lucida, in qualche modo più adulta e matura, perché capace di restare ancorata al presente senza smarrirsi in anticipazioni né in pensieri retroattivi. Così la speranza suggerita da Paolo nella Lettera ai Romani (5,5). La tribolazione produce pazienza, vi leggiamo, e da quella stessa pazienza sorge la virtù della speranza. Speranza «che non delude», perché provata da un’anima nutrita di esperienza (anche l’esperienza del soffrire per avere molto tribolato, patito, atteso). La condizione d’animo prospettata da Paolo non contiene fughe in avanti: presuppone al contrario un costante aderire all’ordine del reale, del possibile. Riponendo fiducia nel tempo, perché è del tempo che più si possiede consapevolezza, saggezza. Perché imparando ad aspettare si è appreso a coltivare quieta e fidente apertura alle possibilità dell’avvenire. Perché nella stasi dell’attesa si è compreso che il futuro si compone anche della nostra cura del presente. Cura e sostieni l’oggi, quel che sarà domani si vedrà («non affannatevi dunque per il domani», Matteo 6, 31-34). Si vedrà al momento, e a suo modo, ma come che sia, l’avvenire porterà doni. Pensare in tal modo ma non in una dimensione astratta, scollata dalla realtà, bensì in virtù di un immaginare concreto, ispirato dall’orizzonte contiguo dell’oggi.
Penso alla speranza secondo entrambe le concezioni, all’apparenza tra loro molto diverse. Una speranza nel senso di innocente fiducia, quella del «meglio dell’infanzia» di cui parla Adorno suggerendola per praticare una buona forma di attesa adulta. E penso a un’altra speranza, quella della Epistola di Paolo, frutto di esperienza, resilienza, cura di quanto si vive – capacità di sopportare tormenti e difficoltà confidando nella futura medicina del tempo. Significati diversi, certo, eppure accomunati da un’attenzione al momento presente nel mentre si pensa al domani. Prestare massima attenzione al presente così da coltivare speranza in ciò che seguirà. Un’idea inversamente proporzionale a quest’epoca: a questo tempo che a malapena presuppone la nostra speranza, non intendendola né in senso innocente, né saggio, bensì solo ansioso. Mai si ragiona abbastanza su quanto siamo circondati e oppressi da una quantità spropositata di predizioni, previsioni, diagnosi formulate in assurdo anticipo, continui test e sondaggi circa le nostre aspettative, attese, cosiddette speranze che tali non sono e non riescono a essere per come di continuo risultano schiacciate su immagini preconfezionate, false speranze per noi dal respiro sempre più corto data la catastrofe imminente che ogni giorno ci viene spiegata, analizzata, predetta. Non si pensa abbastanza a quanto invece non si tratti di passare il tempo ad anticipare il futuro, futuro che certo farà meglio il suo corso, con la calma e la naturalezza necessarie, se almeno un poco si smetterà di consultarlo e interpellarlo in modo compulsivo. Non desidero continuare a consumare le mie migliori energie nel prefigurare, quanto piuttosto nel migliorare l’oggi così da far spazio a un migliore domani.
Bisogna sperare. Ponendosi idealmente in un punto medio tra la sorpresa fiduciosa che era nel «meglio dell’infanzia » e la consapevolezza delle reali possibilità circa il futuro che esperienza e maturità ci hanno insegnato a maturare. Sperare, un po’ come l’angelo della storia di Benjamin, guardando altrove ma sentendosi irresistibilmente attratti dal vento del futuro. Sperare: perché c’è di che farlo. Basterebbe decelerare un poco, staccarsi dall’ossessione del controllo e della previsione. Coltivare noi, il sentire, l’ascoltare, lo stare bene con gli altri e molto prima con noi stessi. E ricordare quanti regali inaspettati il tempo della vita è stato capace di offrire. E accadrà, di nuovo, ancora e ancora. Qualcosa accadrà.