Lo Stato indipendente che gli accordi di Oslo del 1993 prefiguravano con quella storica stretta di mano fra il presidente dell’Olp Yasser Arafat e il premier Yitzhak Rabin era più una promessa scritta sulla sabbia che un vero e proprio accordo politico fra Israele e la controparte palestinese. Ma un disegno – due popoli, due Stati – pur tuttavia esisteva, a dispetto dello scetticismo e delle controversie che per ventisette anni hanno costellato la tormentata road map che si cercava di percorrere. L’Autorità Nazionale Palestinese era nata con quel preciso scopo. In corso d’opera ci furono l’assassinio di Rabin da parte di un estremista israeliano, la prima e la seconda intifada, la strage a Hebron nella Grotta dei Patriarchi, il Likud al potere, la fulminea parabola di Ariel Sharon, il ritiro dei coloni da Gaza, la tripartizione della Cisgiordania (l’area A, circa il 20% del territorio, sotto controllo palestinese, l’area B sotto tutela mista israelo-palestinese e l’area C, corrispondente al 60% della West Bank sotto controllo israeliano), la lunga catena di attacchi suicidi da parte della resistenza palestinese, le quattro guerre di Gaza, la spaccatura del 2007 fra Hamas e Fatah con lo scisma fra i moderati guidati dall’inamovibile Abu Mazen (da quindici anni al potere a Ramallah senza mai più avere indetto le elezioni: le precedenti le aveva perdute, meglio non rischiare…) e i radical-conservatori di Hamas, che governano sulla Striscia in regime di vera e propria autocrazia e si sono consorziati da tempo con gli sciiti hezbollah e gli iraniani che provvedono a garantire sostegno politico e a recapitare loro armi e denaro.
Nonostante l’inconclusa road map, gli accordi di Oslo avevano creato in Cisgiordania un’enclave palestinese che aveva soppiantato il radicalismo irriducibile dell’Olp instaurando una sorta di compromesso storico con il governo israeliano, i cui frutti si videro fin dai primi anni. A cominciare dal boom economico (aziende, centri commerciali, manifatture, società esportatrici hanno proliferato facendo affari in tutto il mondo creando una vera e propria classe media fra i 2milioni e seicentomila palestinesi della Cisgiordania e un benessere prima di allora sconosciuto) per finire con la gestione della sicurezza, puntualmente condivisa fra i servizi interni israeliani e quelli palestinesi. Chi ha seguito su Netflix la serie televisiva Fauda si è fatto un’idea molto vivida di ciò di cui stiamo parlando, perché su una cosa Ramallah e Gerusalemme sono totalmente d’accordo: il nemico comune erano e sono i jihadisti e il terrorismo di Hamas, la cui 'ragione sociale' è quella di cancellare dalla carta geografica del Medio Oriente l’«entità sionista» (così – a Gaza come a Teheran, a Damasco come fra gli Hezbollah – viene definito Israele senza mai nominarlo). Rimaneva vivo tuttavia il sogno irredento di uno Stato palestinese autonomo. Un sogno che si andava progressivamente sfilacciando con la politica degli insediamenti perseguita da Benjamin Netanyahu e confermata dal premier israeliano nel discorso di apertura del suo quarto governo (il settimo della sua longeva carriera politica); una politica aggressiva e noncurante che ha trovato il proprio cavaliere bianco in Donald Trump, i cui azzardi – effettivo riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale, spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv alla Città Santa e soprattutto un vero e proprio semaforo verde all’annessione di un’ampia porzione della Cisgiordania – hanno portato all’inevitabile denuncia di Abu Mazen: «Lo spirito di Oslo è definitivamente sepolto, il processo di pace è un guscio vuoto».
In realtà non è vero, e men che meno auspicabile. Ma il padre-padrone dell’Anp sa che se cede su questo fronte il suo nome sarà associato al giorno più disonorevole della lunga diaspora palestinese. La posizione dell’ottantaquattrenne rais dell’Anp è pericolosamente scivolosa: non solo rischia di «svendere Gerusalemme per un piatto di lenticchie» (come buona parte del mondo arabo già lo accusa), ma rischia anche di consegnare la Cisgiordania nelle mani di Hamas. Che in pratica diventerebbe un’altra Gaza, ma stavolta molto meno agevole da controllare da parte delle forze di sicurezza israeliane. Scenari che tolgono il sonno. E che nessuno vorrebbe più vedere. Spetta alla politica fare un passo. Quello giusto, per una volta, riagguantando e dando sostanza a quel dialogo che si è lasciato cadere, senza il quale non vi è futuro per nessuno.