Osservate da lontano le elezioni americane sembrano di facile interpretazione. Viene infatti naturale pensare che non vi siano indecisi davanti alla scelta fra i due candidati alla presidenza, specialmente dopo le convention che hanno incoronato i due candidati. Niente di più lontano politicamente di Donald Trump e Joe Biden, niente di più distante dal punto di vista della personalità. Se sei nero o bianco, povero o ricco, Wasp o immigrato, membro della comunità finanziaria o di quella accademica, indifferente al cambiamento climatico o ambientalista non dovresti avere dubbi su come riempire la scheda (in cabina o postale che sia). E un semplice calcolo delle cosiddette constituencies, certo con l’incognita dell’affluenza alle urne di ciascun gruppo, dovrebbe dare un risultato chiaro anche prima del 3 novembre. Ma, come sempre accade, ingrandendo l’immagine le cose si fanno più complesse e sfumate. Non ci sono soltanto le categorie elencate, altri temi pesano e vicende contingenti possono prendere improvvisamente il sopravvento emozionale sull’elettorato attivo, perché bisogna avere ben presente che, nel 2016, il 28% degli aventi diritto al voto si espresse per Trump, il 29% per Hillary Clinton e il 40% non andò alle urne, mentre il 3% dei suffragi si disperse. Non serve cercare di convincere gli americani per entrare alla Casa Bianca, è sufficiente conquistare temporaneamente il cuore o gli interessi di una piccola percentuale strategicamente distribuita fra gli Stati. Per questo si crea una netta cesura fra la narrazione politica ideale e il calcolo pragmatico che le macchine della propaganda dei due partiti stanno mettendo in campo. Sul primo versante, ciò che è emerso dalle convention non è comunque esaltante. Biden ha giocato tutto sulla contrapposizione frontale a un presidente che viene giudicato inadeguato e pericoloso, stretto com’è tra un riemergere delle contrapposizioni razziali che non ha fatto nulla per stemperare e una crisi sanitaria e sociale con pochi precedenti che ha (mal) gestito con spregiudicatezza populistica. L’alternativa democratica – al di là dell’archiviare Trump – non ha però mostrato un profilo chiaro e riconoscibile, oscillando fra i temi centristi che possono piacere anche ai repubblicani moderati (sul clima, per esempio, c’è stata una frenata) e le spinte più "radicali" (secondo la prospettiva Usa, in Europa sarebbero dette riformiste o al massimo socialdemocratiche) in ambito sociale ed economico. L’unico messaggio chiaro è lo stop a una leadership divisa che asseconda le contrapposizioni e gli odii. Il paradosso è che potrebbe non bastare proprio per le cifre citate poco sopra. Ed è il segreto (ormai non più tale) del successo del presidente che cerca un secondo mandato. Il Partito repubblicano che quattro anni fa digerì a fatica la sua candidatura, ora si è pienamente adeguato, rinunciando letteralmente ad articolare un programma e limitandosi a giurare fedeltà al capo. Che sul palco ha chiamato l’intera famiglia allargata insieme con il sobrio e devoto Mike Pence per mandare messaggi semplici e inequivocabili. Trump resta il tycoon che mette d’accordo i maschi bianchi con una grigliata o con un grafico in impennata di Wall Street, che promette "legge e ordine" nelle strade insieme ai coniugi orgogliosi di avere affrontato armi in pugno i manifestanti afroamericani, che ribatte duramente alla lega basket che si ferma per protestare contro le violenze della polizia. Ma, come detto, le cose sono più complesse se si considera come è (ancora oggi) la società americana.
Il presidente è anche l’oppositore dell’aborto che ha partecipato alla marcia per la vita (sebbene sia entrato in urto con i vescovi per il Muro anti-migranti e le sue politiche restrittive e impietose) e coltiva con assiduità i rapporti con i cristiani evangelici. Inoltre, il suo agitare il drappo rosso del socialismo evocando le possibili riforme del rivale tocca ancora corde sensibili nel Paese: non è un caso che la giovane emergente dell’ala sinistra Alexandria Ocasio-Cortez sia stata 'nascosta' dai democratici concedendole appena un minuto alla convention. Non si può però celare che il cattolico praticante Biden (sarebbe solo il secondo presidente fedele al Papa dopo Kennedy, che dovette spiegare che non avrebbe obbedito al Vaticano) sia pro-choice, ovvero favorevole alla libera scelta rispetto all’interruzione di gravidanza. Certo, un Paese spaccato, provato dalla pandemia e desideroso di riprendere la crescita economica – che, dopo l’era Obama, con Trump era proseguita spedita fino a febbraio prima di scontrarsi con il coronavirus – potrebbe avere voglia di normalità e inclusione. Eppure, non sarà così lineare l’avvicinamento alle urne. Le più che legittime lotte per i diritti delle minoranze – ieri la grande marcia a Washington nel ricordo di Martin Luther King – rischiano paradossalmente di amplificare le divisioni. Uno sceriffo (bianco) in queste ore compariva sui social media invocando nuove carceri dove rinchiudere a vita i manifestanti violenti (e forse anche non violenti) del Wisconsin dopo il ferimento di Jacob Blake. Probabilmente ha raccolto censure e apprezzamento in egual misura. Così si presenta lo sprint finale per la presidenza americana. Anche se da lontano la valutazione sui due candidati può essere meno equanime e il giudizio andare nettamente in una direzione.