Guardiamoci e vediamo
giovedì 2 gennaio 2020

In questa epoca di satelliti e di avanzatissime tecnologie, l’immagine dell’Italia ripresa dallo spazio non è certo una sorpresa. Eppure c’è una straordinaria forza di novità nell'invito che il presidente della Repubblica ha rivolto a tutti gli italiani nel suo messaggio di fine anno: «Proviamo a guardare l’Italia dal di fuori, allargando lo sguardo oltre il consueto. In fondo, un po’ come ci vedono dall’estero». Ecco lo sprone e la sfida: farsi, ognuno di noi, un po’ straniero per capire davvero il nostro Paese e ritrovare slancio.
Che cosa siamo invitati a vedere, «allargando lo sguardo»? Non una mera entità geografica, un lembo di terra dall’originale conformazione, ma un insieme di persone, una comunità. Un popolo. Un concetto inclusivo che molti hanno smarrito, persi dietro a logiche sempre più esclusive, quando non apertamente discriminatorie.

È come voler dire, dall’alba di questo nuovo anno: "Prima l’Italia", con la sua autentica «identità». Non prima delle altre nazioni, un po’ come si usa fare con l’assonante ma assai diverso (anzi, opposto) "prima gli italiani". Ma "prima" dei nostri egoismi, delle fazioni in politica, nella società, sul lavoro, a scuola. Non è certo un caso se Sergio Mattarella ci ha ricordato che il nostro Paese è «proteso nel Mediterraneo» (potenza di un aggettivo) e «posto, per geografia e per storia, come uno dei punti di incontro dell’Europa con civiltà e culture di altri continenti».
Un’Italia aperta, dunque, che non è soltanto patria di immensi artisti, di cucina prelibata e di paesaggi e monumenti mozzafiato, ma è anche produttrice di solidarietà, di competenze, di grandi capacità d’impresa e di sviluppo. Ma tutto questo non basta, se non si aggiunge ciò che manca. Ciò che forse, appunto, abbiamo perduto in questi lunghi, drammatici anni di crisi economica e di dolorose lacerazioni del tessuto sociale. Anni di contrapposizioni sterili e di notizie false. Di cattiverie e di odio, sui social, sui media più tradizionali, dai palchi dei comizi politici.

Come un comandante Parmitano delle istituzioni, Mattarella ci ha indicato le stelle da seguire: «Senso civico e senso della misura». In una parola «responsabilità», che difende la libertà e i princìpi repubblicani, genera fiducia nel futuro, alimenta la speranza. Quella stessa responsabilità alla quale, in un’Italia sempre più vecchia e intirizzita dall’inverno demografico, le istituzioni sono urgentemente chiamate nei confronti dei giovani – che possano lavorare ed essere pagati «correttamente» –, delle famiglie che finora hanno impedito lo sfascio fungendo da grande rete sociale, degli anziani, patrimonio di memoria ed esperienza. Responsabilità verso l’ambiente, per fermare i cambiamenti climatici. E solidarietà verso tutti coloro che sono in stato di bisogno. Significativo, a questo proposito, il ringraziamento che il presidente ha rivolto al vescovo di Roma, papa Francesco, perché con il suo esempio «mostra ogni giorno di amare il nostro Paese».
Sergio Mattarella ci ha ricordato che in questa nostra Italia c’è chi appicca incendi per truffare l’assicurazione, ma ci sono i Vigili del Fuoco che muoiono per spegnerli, c’è il sindaco che sacrifica la sua vita per mettere in salvo tutti i concittadini in pericolo, c’è chi a Capodanno marcia silenziosamente per la pace. L’Italia dell’«altruismo e del dovere».

Ci ha detto tutto questo, il capo dello Stato, da una sala "intima" del Quirinale, senza scrivania davanti a sé e con un grande albero di Natale a fare da sfondo. E il messaggio è arrivato, chiaro.

Lo si capisce da quei 10 milioni di italiani che lo hanno ascoltato in diretta tv e dagli apprezzamenti riscossi dalle altre alte cariche istituzionali e dai leader di tutte le forze politiche, con una sola eccezione per altro rimasta isolata tra i suoi stessi alleati. Non siamo in grado di valutare la teoria di quei comparativisti francesi che – dopo la fine della «Repubblica dei partiti» illustrata da Pietro Scoppola – hanno preso a definire l’Italia come «una forma di governo parlamentare a correttivo presidenziale». Ben venga, tuttavia, questo 'correttivo' se ci convincerà a deporre i cellulari e le tastiere usati come armi e a metterci di nuovo gli uni affianco agli altri, guardando avanti senza sconfessare le rispettive diversità perché – come è scritto sulla sedia regalata al capo dello Stato da un’associazione di persone disabili – «quando perdiamo il diritto di essere differenti, perdiamo il privilegio di essere liberi».

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