Governo responsabile è provarci davvero
giovedì 15 marzo 2018

La legge elettorale, in gran parte proporzionale, ci ha riportato alle dinamiche della prima Repubblica: i vincitori sono quelli che hanno incrementato percentualmente i loro voti (il M5s e la Lega) non quelli che hanno una maggioranza di governo. Ma la logica proporzionale porta, allora, al fatto che la governabilità vada assicurata con coalizioni parlamentari (come fu sempre nella Prima Repubblica, anche quando la Dc ebbe la maggioranza assoluta dei seggi). A questo non osta il fatto che il Parlamento sia in effetti diviso in tre parti (lo era, sostanzialmente, anche nella Prima Repubblica), ma piuttosto il fatto che gli attuali leader sono nati e cresciuti politicamente in una logica di maggioritario (e forse anche in un immaginario da videogiochi) e rifiutano d’istinto come 'immorali' le alleanze postelettorali. Certo, queste convergenze possono essere fenomeno di trasformismo o, peggio, di 'corruzione' di singoli eletti: dunque una vergogna, mai giustificabile come 'responsabile'.

Ma possono anche maturare in una seria discussione politica e culturale: nel Parlamento, nei partiti, nell’opinione pubblica e nel Paese. Con o senza il passaggio interlocutorio di un 'governo istituzionale', che i vincitori del 4 marzo dicono risolutamente di non voler prendere in considerazione. Ricordate le «convergenze parallele» di Moro e Fanfani? Si può fare tutta l’ironia che si vuole, ma l’apparente bizantinismo dell’espressione voleva dire che si apriva un processo complesso e difficile. Ed è storia che, attraverso uno sforzo corale (non solo dei politici), quel processo fu coronato da successo e portò, nel tempo, all’alleanza di centro-sinistra tra democratici (cristiani e laici) e socialisti, aprendo uno dei periodi migliori nella storia nazionale, l’Italia di Aldo Moro e di Sandro Pertini. Ecco allora che il travaglio delle forze in Parlamento, nonché le riflessioni e le decisioni del Presidente della Repubblica, vanno accompagnate da un autonomo e responsabile dibattito culturale ed etico-politico nell’opinione pubblica. Proprio ponendomi in questa disposizione, vorrei avanzare due riflessioni che sono, evidentemente, anche auspici, per il bene comune del Paese, che non può essere lasciato per troppo tempo nella debolezza di governo (in un momento difficile per la stessa Europa, forse costretta a gravi guerre commerciali) né sottoposto allo stress di elezioni anticipate ripetute che potrebbero mettere a rischio lo stesso sistema democratico. La prima considerazione riguarda il terzo polo, quello sconfitto.

Finché il Pd (o se vogliamo tutta la Sinistra) rimarrà in una fase implosiva, autodistruttiva, chiusa in un’autoreferenzialità suicidaria di rancori e di veti, tutto il sistema politico sarà più debole. Prima il Pd (o la Sinistra) esce dalla sua crisi interna meglio è per tutti. Per questo, al di là di tante altre considerazioni di programma e di comunicazione, deve passare dall’Io al Noi. Al di là delle procedure (congressuali o no) deve ritrovare un’unità reale e non un armistizio ipocrita. Ciò significa una nuova segreteria extrarenziana, ma non anti-Renzi. Così pure dovrebbe esprimere collegialmente una classe dirigente (e non solo un leader) di possibile 'ricambio' governativo: una prospettiva fungibile, in questo senso, potrebbe essere la formazione di un governo-ombra (prospettiva fallita in passato, ma che oggi potrebbe avere un senso unitario e comunitario necessario). O il Pd è in grado di smetterla di odiarsi e passare, veramente, dall’Io al Noi o è destinato alla scomparsa. Scelga cosa preferisce. Hic Rhodus hic salta.

La seconda considerazione riguarda la ricerca di alleanze di governo. Due dei tre 'poli' emersi, come già nel 2013, anche con queste elezioni hanno la responsabilità di provarci. Cerchi Matteo Salvini di vedere se trova alleanze con il M5s o con il Pd e cerchi Luigi Di Maio di fare altrettanto verso il centrodestra o verso il Pd: chi ha più filo da tessere, tessa. È comprensibile che, in prima battuta, si guardi ai singoli parlamentari (non essendoci costituzionalmente vincolo di mandato): ma questa via è realisticamente possibile solo in caso di spaccatura (e conseguente fine) del Pd. Se però così non si hanno risultati, ci vorranno rapporti non con i singoli, ma con i gruppi. Il M5s dovrebbe però acquisire la capacità di portare l’innovazione anche sul piano delle alleanze di governo, superando la sua visione monocolore con un di più di consapevolezza democratica (non ha Di Maio evocato De Gasperi? impari da lui). E, d’altra parte, come la Dc con Moro ha assolto il compito di 'democratizzare' i partiti marxisti (prima il Psi e poi perfino il Pci), così oggi il Pd, se è il grado di assolvere un ruolo storico di primaria grandezza, dovrebbe assumersi il compito di stimolare, dall’esterno, la maturazione dei vincitori da populisti a popolari.

Compito per il Pd non facile, certo: ma chiaro e alto, e che può avere successo non malgrado il suo stesso miglior patrimonio di ideali, di idee, di competenze, ma grazie a esso. Un amico mi ha mandato recentemente un messaggio di antica saggezza cristiana che può essere oggi opportunamente richiamato: « Meminerit sane in ipsis inimicis latere cives futuros » (Sant’Agostino, Civ.Dei, I,35): Ci si ricordi che anche nei nemici sono nascosti futuri concittadini.

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