«Il crimine rappresentato e raccontato può diventare una sorta di scuola criminale per chi lo osserva?». La domanda se la poneva Roberto Saviano, autore di Gomorra – tanto del libro quanto della fiction, di cui si è appena conclusa la terza serie su Sky – rispondendosi, anche, e archiviandola come un sofismo. La realtà sembra dargli torto se, come ha denunciato Luigi De Magistris, a Napoli il giorno dopo la messa in onda del serial le aggressioni si moltiplicano, le "stese" come le chiamano in gergo, per intimidire le persone inermi e sfidare le cosche rivali. Le critiche del sindaco a Gomorra, non le prime, parlano di emulazione, di ragazzi che imitano fatti e personaggi del telefilm, e arrivano il giorno dopo l’aggressione (in perfetto stile gomorrese) di un diciassettenne, Arturo: l’ultima delle coltellate ha sfiorato la giugulare. Pochi millimetri hanno fatto la differenza tra la vita è la morte.
Che il male sia l’unico e assoluto protagonista della serie Saviano lo ha sempre sostenuto, andando fiero di essere riuscito a cancellare ogni traccia del bene. Ha un senso: la malvagità nuda e cruda, la miseria umana senza filtri e la spietatezza stomacano, la violenza è respingente. Dopo un po’ non ne puoi più.
O forse no.
«Tocca allo spettatore il compito di capire quanta Gomorra ha dentro», teorizza Saviano. Ne discende che qualcuno si può scoprire invaso, già colonizzato da una brutalità che riconosce e non disconosce. L’eccellenza della serie non aiuta, promuovendo un’estetica del male a prodotto di cassetta, spalleggiata dalle truppe d’assalto della pubblicità e della comunicazione che non sparano a salve. Gli strateghi del marketing – i "persuasori occulti", come li definiva Vance Packard in un saggio del 1957 sul potere della pubblicità, che ha fatto scuola – convincono lo spettatore che non c’è niente di male nell’appassionarsi al male, dandogli ogni strumento per un’immersione più profonda. Sky ha prodotto approfondimenti sul "gomorrese", la parlata dei camorristi, e ogni personaggio ha la sua clip che ne descrive tutti i vizi ma - come da copione - nessuna virtù. Ciascun protagonista ha i propri ammiratori. Sì, ammiratori: perché se proprio non puoi parteggiare per i buoni, finisci che tra i cattivi scegli quello che ti piace. L’assuefazione alla violenza è dietro l’angolo. Come succede con gli zombie di "The Walking Death", altra serie Sky di successo, che dopo due puntate sono solo un sottofondo che non fa paura a nessuno – magari solo un po’ di ribrezzo – anche alla spietatezza ci si abitua, te la aspetti, la digerisci.
Ma se i morti viventi sono una finzione che più finta non si può la camorra è una realtà. Può piacere un cattivo? Eccome! «Totò Riina? Era una brava persona, sentiremo la sua mancanza», si addoloravano, all’indomani della sua morte, senza alcuna vergogna gli anziani di Corleone, i coetanei del boss che un boss – a sentir loro – non era, tantomeno uno spietato assassino. E mentre quelli sproloquiavano seduti su una panchina in piazza, la figlia e il genero di Riina raccoglievano in un’altra piazza – quella digitale – il cordoglio di centinaia di persone, collezionando decine e decine di "like" sulle loro pagine listate a lutto. Quanta Gomorra c’è in quelle persone?
Viene da chiedersi se l’Italia può permettersi un capolavoro come Gomorra, così ben fatto, così attraente: Saviano fa un’apertura di credito al pubblico, partendo dal presupposto che si schifi di fronte a tante nefandezze. Ma il ritmo serrato delle azioni, l’accavallarsi degli omicidi, l’intrecciarsi dei tradimenti non si limita a documentare il male, finisce per mitizzarlo, ricoprendo di un’aura eroica criminali che nella realtà sono ignoranti, spietati, grotteschi e volgari.
Quel che il marketing ha messo in moto attorno a Gomorra è pericoloso, qui molto più che altrove: perché in certe zone del Paese un posto da spacciatore al servizio dal boss è conteso e, se arriva, benedetto. Davanti alla tv, sedotti da Gomorra, non ci sono solo adulti con anticorpi sviluppati, capacità di analisi e di sintesi, giudizi già formati. Ci sono anche tanti giovani. Molteplici ricerche confermano che sono loro i primi utilizzatori di Rete e social network, attivissimi nel cercare informazioni, ma anche i primi a non saper distinguere il falso dal vero.
La grande bugia di Gomorra è ben confezionata: il bene non esiste, il male c’è ed è l’unica scelta, solo chi è disposto a morire e a uccidere è uomo vero. Su queste pagine ce lo siamo chiesti pure negli anni scorsi, e oggi la domanda torna assillante: vale la pena rischiare così che tanti siano affascinati e persuasi dal 'lato oscuro' della realtà sino ad abboccare?