Gentile direttore,
nonostante gli ormai moltissimi anni di pratica clinica e scientifica, vivo ogni giorno e con immutata passione l’evoluzione della ricerca biomedica che viene condotta al Vimm (Istituto veneto di medicina molecolare): sempre più spesso mi capita di riflettere sulla sproporzione che oggi esiste fra la grande mole di produzione scientifica, favorita dal crescente apporto della tecnologia digitale e ancora di più dell’Intelligenza Artificiale, e la limitata attenzione dedicata dall’opinione pubblica – e in particolare da epistemologi e filosofi della scienza – alle implicazioni etiche che questo comporta.
Mi spiego meglio: l’Intelligenza Artificiale e l’ingegneria genetica, soprattutto in ambito biomedico giocano un ruolo rilevante. Basti pensare alla pervasività dell’IA in tutti gli ambiti della società, al punto da diventare un normalizzatore dell’attività umana, o alla recente acquisizione di sofisticate tecniche di manipolazione genica che ha consentito di ottenere risultati esaltanti nella prevenzione di gravi patologie. Ebbene credo che non vada assolutamente sottovalutato il rischio che questa progressione in entrambi i campi può e potrebbe comportare se non si attua un accurato monitoraggio dei relativi effetti collaterali, come per esempio sta facendo un gruppo di lavoro nordamericano che si è dato il nome significativo 'Foxglow': il termine inglese della Digitalis Purpurea, da cui si ricava una sostanza che a seconda della dose può esser curativa o mortale.
D’altra parte, se pensiamo alla consolidata e ormai consueta formulazione di algoritmi che forniscono dati utili per la diagnosi e la cura di patologie (ampiamente utilizzati nella pratica clinica quotidiana) e se andiamo a esaminare nel dettaglio l’utilizzo di un algoritmo per una qualsiasi patologia, chiedendo quale sia la terapia per una determinata malattia, avremo sicuramente una risposta appropriata. Il problema è che se chiediamo come prendersi cura del paziente affetto dalla malattia di cui sopra, la risposta dell’algoritmo resta immutata, semplicemente perché l’algoritmo prende in considerazione la patologia e non il paziente. Stesso discorso per l’evoluzione dell’ingegneria genetica, dove l’acquisizione delle nuove metodiche ha consentito, come accennavo prima, un salto di qualità epocale.
È stata infatti introdotta una tecnica di manipolazione genica – basata su una forbice genetica – che permette di correggere specifiche mutazioni geniche che codificano patologie importanti, rimuovendole e sostituendole con linee cellulari che bloccano lo sviluppo di quella malattia. Tuttavia non è inverosimile che dall’utilizzo della correzione di una mutazione patologica per prevenire una grave malattia si possa passare a obiettivi del tutto diversi e di grande rischio. Non è improbabile, infatti, che possa sopravvenire un salto di qualità che preveda l’utilizzo di queste metodiche con finalità cosmetiche o con ancor più drammatiche finalità di mutazioni intellettuali.
Si tratta solo di esempi o forse di paradossi, ma anche di derive possibili, che vanno prese in considerazione e vagliate rigorosamente sia dal punto di vista tecnico sia e soprattutto per le implicazioni etiche che questo comporta: si impone un ampio, tempestivo e approfondito dibattito su aspetti controversi dell’evoluzione della ricerca scientifica, in modo da evitare di trovarsi impreparati davanti al fatto compiuto. Servono anticorpi culturali in grado di mantenere la ricerca su un percorso virtuoso, efficace e fruibile da tutta la comunità, evitando di esporci a rischi di cui è difficile prevedere la portata.
Presidente della Fondazione per la Ricerca Biomedica Avanzata, Padova