Due cose sorprendono, in special modo, della riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm varata finalmente venerdì dal Consiglio dei ministri e della quale si discuterà ancora per lunghe settimane.
La prima è che, ormai da 30 anni, la giustizia rimane materia da maneggiare con cura: per lei si sono rotte alleanze politiche, si sono rovinate vite private, amicizie, matrimoni, sono caduti diversi governi. Insomma, c’è la consapevolezza che su una riforma che interessa (di nuovo, finalmente) le carriere dei magistrati in toga e in politica, le loro nomine, il metodo di eleggere e farsi eleggere al Csm, si può facilmente scivolare e farsi male.
Il secondo aspetto che sorprende, o almeno può sorprendere un ingenuo cultore della separazione dei poteri che non abbia mai messo piede in Italia, è che il divieto delle cosiddette "porte girevoli" tra magistratura e politica non fosse già presente nel nostro ordinamento, fin dalle origini.
Come se fosse normale, accettabile o logico candidarsi e magari venire eletti, come è accaduto, sindaco o presidente di Regione nello stesso territorio in cui fino al giorno prima si è esercitata la funzione giurisdizionale, da giudice e perfino da pubblico ministero, quando non addirittura da procuratore capo.
Come se fosse normale, accettabile o logico poter svolgere contemporaneamente entrambe le funzioni, seppure non nello stesso territorio.
Come se fosse normale, accettabile o logico, una volta terminata la propria esperienza in politica, magari di diversi anni, indossare nuovamente la toga e trovarsi a indagare o a giudicare un ex avversario politico o un ex compagno di partito.
Eppure fino a due anni fa (governo Conte 2, ministro della Giustizia Alfonso Bonafede) il tema non era mai stato messo davvero all’ordine del giorno. E nemmeno dopo, se è vero che il testo base del ddl Bonafede è rimasto subito impantanato in commissione alla Camera, dove l’attuale guardasigilli Marta Cartabia l’ha ripescato per innestarvi la sua riforma.
Ma sul catenaccio montato alle "porte girevoli" le due versioni, fatta salva qualche sfumatura, coincidono. Sarà questa, dunque, la volta buona? La domanda ci riporta al primo punto, ovvero l’alta "infiammabilità" politica della materia giustizia. Colpisce il fatto che l’esecutivo Draghi, dopo aver fin qui "blindato" con la fiducia quasi tutti i provvedimenti d’iniziativa governativa (32), abbia per il momento escluso questa soluzione, lasciando il testo Cartabia "aperto" alle modifiche del Parlamento. Bene. Non sarà da queste pagine che leggerete una parola contro la centralità delle Camere nel processo legislativo.
Ma va ribadito ciò che sottolineammo due mesi fa, nel definire questa «la riforma più necessaria» per il pianeta giustizia e per l’equilibrato rapporto tra istituzioni e nel sollecitarne l’approvazione: il tempo stringe, proprio come è avvenuto per la legge di bilancio e per i vari decreti contenenti misure emergenziali, sanitarie ed economiche, dettate dal Covid-19.
A luglio, infatti, si terranno le elezioni dalle quali uscirà il nuovo Csm, dopo la consiliatura più turbolenta e travagliata della storia repubblicana. Non è pensabile che il voto si svolga con lo stesso sistema della scorsa volta. Così come deve cambiare il metodo di assegnazione degli incarichi direttivi e, appunto, la disciplina del passaggio dei magistrati alla politica. I partiti perciò dovrebbero resistere alla tentazione (che immaginiamo forte, non foss’altro per il consistente numero di magistrati e avvocati tra i deputati e i senatori) di "smontare" la riforma. Il prezzo da pagare sarebbe un’ulteriore perdita di credibilità della politica e della magistratura. E l’Italia non può proprio permettersi di pagare ancora.