giovedì 19 maggio 2016
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Vi è un passaggio chiave nell’intervento di ieri del presidente Sergio Mattarella alla cerimonia di apertura della Conferenza Italia-Africa. Si tratta del riconoscimento che il nostro Paese è per condizione geografica, storia e cultura, ponte tra Africa ed Europa. «Un ponte libero da pregiudizi, rispettoso delle peculiarità degli interlocutori e pronto a un confronto pragmatico e aperto». Ecco che allora, nel lessico del nostro capo dello Stato, emerge un approccio, per certi versi inedito, nelle relazioni tra Nord e Sud: la consapevolezza, cioè, che nel mondo «villaggio globale» la vera sfida dell’oggi, prim’ancora che essere sociale, politica o economica, riguarda il cambio di mentalità e dunque ha una valenza fortemente culturale. Partendo da questo presupposto è possibile disegnare percorsi di reciproca conoscenza e collaborazione, nella consapevolezza che “noi” e “loro” abbiamo un destino comune. Il fenomeno migratorio, d’altronde, ormai epocale, ci interpella al plurale. Esso non è altro che la cuspide di un iceberg rispetto al quale nessuno, a meridione e a settentrione, può far finta di non vedere e di non sentire: non foss’altro perché vi sono reciproche responsabilità. Detto questo è chiaro che il pragmatismo di una certa real politik non può prescindere dagli interessi di parte, di tutte le parti in questione. Per cui, come ha detto con franchezza il premier Matteo Renzi, «il rapporto con l’Africa preme all’Italia non solo per una visione etica, ma per una visione politica e di utilità reciproca». Qui si pone, inutile nasconderselo, una questione centrale nei rapporti con una realtà continentale anni luce lontana dal nostro immaginario. L’esperienza dei nostri missionari e missionarie nelle periferie del mondo, alla luce del Vangelo e del magistero di papa Francesco, ci insegna che occorre sempre e comunque salvaguardare la dignità della persona umana creata a immagine e somiglianza di Dio. Secondo un’antropologia che afferma il primato della globalizzazione dei diritti sulla globalizzazione dei mercati all’insegna della de-regulation, una delle principali cause scatenanti dei processi migratori. Questo, in sostanza, non significa affatto demonizzare l’iniziativa dei privati, gli investimenti e la crescita. È però necessario che siano generatori di benessere condiviso. Il problema è che in questi lunghi anni gli interventi stranieri non solo hanno rafforzato le tradizionali oligarchie al potere in molti Paesi africani, ma soprattutto hanno acuito lo stato di sofferenza di molte economie nazionali penalizzate dalle speculazioni sulle materie prime, dalla mancata riforma delle regole del commercio e dalla finanziarizzazione del debito.Solo in questa prospettiva è possibile leggere l’enigma, guardando al futuro, posto dal ministro Paolo Gentiloni, in riferimento ai tratti fisiognomici delle emergenze. «Per ora – ha affermato – abbiamo spazio per mettere in campo una strategia prima che si verifichino situazioni di emergenza che nessuno può escludere». Ma perché questo sia realmente possibile è doveroso passare dalle parole ai fatti, innescando meccanismi basati sulla reciprocità e fermando le macchine dell’esclusione sociale che finora hanno girato impunemente. L’Africa, è bene rammentarlo, non è povera, semmai è impoverita e non sa che farsene di un approccio paternalistico, all’insegna della carità pelosa. I popoli di questo continente, custodi di saperi ancestrali, in fondo invocano giustizia. Léopold Sédar Senghor, il grande e rimpianto statista e intellettuale senegalese ebbe a dire: «Per noi, in effetti, cittadini del Terzo Mondo, che siamo stati lungamente colonizzati, la libertà, vuol dire la facoltà di pensare e di agire da noi stessi e per noi stessi, è la condizione sine qua non della nostra partecipazione all’elaborazione della Civilisation de l’Universel, che non sarà la condizione di essere la simbiosi di tutte le civiltà differenti ». Parole ancora oggi inascoltate. Nell’Italia di oggi che torna a guardare a sud, forse, un po’ meno.
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