Quando esplode la rabbia dei giovani tutti dovremmo sentirci chiamati in causa: ascoltarne la voce, come ci ha esortato a fare il presidente Mattarella nel suo discorso per il giuramento dopo la rielezione al Quirinale, è doveroso; inammissibile, in particolare per gli educatori, sarebbe disertare il confronto con gli adolescenti, anziché tentare di metterli in guardia dalle strumentalizzazioni a cui possono andare incontro. Come si fa, ad esempio, a non essere d’accordo quando dicono che non si può morire di scuola-lavoro? I drammatici casi di Lorenzo Parelli, travolto da una trave in una fabbrica udinese proprio l’ultimo giorno di stage, e quello di Giuseppe Lenoci, morto in un incidente stradale di ritorno da un corso di formazione nelle Marche, accendono una luce rossa sui sistemi di sicurezza sui quali non si può transigere. In tale direzione, ogni passo dovrà essere fatto per scongiurare ulteriori tragedie, anche tenendo presente che gli infortuni sul lavoro riguardano ogni categoria. Allo stesso tempo non dovremmo confondere i tirocini nelle aziende praticati da sempre negli istituti professionali, in mancanza dei quali lo stesso apprendimento sarebbe impossibile, basti pensare alle ore trascorse nei laboratori, con i Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento), previsti per gli istituti tecnici e i licei, che a loro volta si possono svolgere presso imprese o nelle associazioni di volontariato. Mettere tutto sullo stesso piano significa o non sapere o non voler capire. Non è la stessa cosa per un ragazzo impegnato in questi tirocini fare le fotocopie in un istituto bancario o frequentare un corso di pronto soccorso: nel primo caso si può sentire sfruttato, e ne avrebbe tutte le ragioni; nel secondo ha la possibilità di compiere un’esperienza umana straordinaria in grado di arricchirlo. Conosco molti ragazzi che sono stati assunti nelle officine dove hanno fatto l’apprendistato scolastico e altrettanti impegnati in azioni socialmente utili con i più svantaggiati. Ma nelle proteste anche (e non solo) violente di ieri a Milano, Roma, Torino e Napoli, decifro un’inquietudine che va oltre gli slogan esposti negli striscioni e si lega a un desiderio partecipativo che dovremmo riuscire a soddisfare meglio di quanto facciamo. Se ci limitassimo a discutere soltanto del peraltro doveroso ripristino delle prove scritte agli esami di maturità, oppure ci mettessimo a rispondere alle provocazioni relative al fine vita o alla liberalizzazione degli spinelli, a mio avviso non coglieremmo appieno l’inquietudine profonda di un’avanguardia generazionale che, segnata da due anni di pandemia, da una parte si sente esclusa dalle decisioni prese sulla sua pelle, dall’altra viene costantemente rincorsa dal mercato, ovviamente interessato.
Sottrarre la dialettica ai ragazzi è rischioso e questo può accadere in due modi: o ignorandoli, o compiacendoli. Al contrario, dovremmo guidarli verso esperienze reali, non illusorie. Portarli dentro un confronto magari aspro, ma autentico. La responsabilità dell’adulto resta sempre la stessa: incarnare il precetto che intende far rispettare. Ammettiamolo: in tale direzione i modelli da additare, nella vita pubblica, non sono numerosi. Sarebbero più frequenti nella sfera privata, ma le luci dei riflettori che dovrebbero inquadrarli restano quasi sempre spente, orientate verso personaggi in costume che recitano davanti alle telecamere invece di vivere. E poi, oltre ai comportamenti non sempre adeguati degli adulti, c’è un problema di parole: retoriche, gergali, politicamente corrette, costruite solo sui sistemi verbali, prive di riscontro e quindi non legittimate. Se non edifichiamo un nuovo linguaggio, in grado di parlare ai giovani, soprattutto a quelli che non la pensano come noi, a coloro che ribaltano e rifiutano i nostri schemi, non potremo ripristinare, per loro stessi, lo spazio critico necessario a farli crescere.