E adesso che cosa rimane e che cosa è finito, che cosa è già morto e che cosa perdura dentro le nostre emozioni, dentro il pensiero trafitto di stupore e di pianto, del terremoto di Haiti? Ancora giungono le cifre cumulate dei cadaveri insepolti, dei corpi estratti dalle macerie in incerto bilico fra morte e vita e vita mutilata, e dei vivi sepolti che ancora si cerca di salvare. Il tempo che stringe la vita dei vivi è ora il frenetico duello della dissepoltura; anche a mani nude, in disperata passione; e poco più tardi il silenzio d’ogni lamento vivo darà dimensione finale alla irreparata sventura.È questa sventura che si fa "nostra", che diventa il nostro pensiero. Perché non ci basterà d’aver tolto dal nostro salvadanaio qualche spicciolo di soccorso a placare il perché delle vite distrutte, a spiegare la storia infinita dei cataclismi che "normalmente" percuotono la terra, cicloni, maremoti, terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami; come eventi naturali da subire e basta. C’è da capire che cos’è la "ballata della morte" dentro le storie di ordinaria devastazione della vita, di cui siamo spettatori.La morte è "la nemica". La morte violenta, la morte massificata da un evento catastrofico, porta alla ribalta il bisogno di verità sul quesito ultimo, cioè sul senso della vita. La morte è la frontiera dove il bisogno di verità si confronta con le contraddizioni tra felicità e disperazione. Quei cadaveri a mucchi, nelle strade di Haiti, usati persino dai disperati a far barricate, fanno desolato argomento d’angoscia sulla presenza del male. Il male si accresce, se nel panorama della morte entra il fantasma dello sciacallo, e il bisogno di contrastarlo con i soldati, come pure è avvenuto. Ma il quesito radicale sta a monte di ogni vicenda, il quesito radicale è il male che sta nella morte.Quel che sappiamo sugli sconvolgimenti della terra che abitiamo, sulle faglie e le derive della crosta terrestre, sui pronostici tellurici, sembra dirci che quanto è accaduto è "naturale". E dunque ci dovrebbe essere noto il naturale dolore possibile. Ma sulla speranza, sulla sfida che porta con sé la vocazione umana della vita, e il senso del dolore che intercetta la vita, dobbiamo ancora trovare risposta. Non ci arrenderemo, senza aver capito la vita.Può essere un caso che il sisma abbia colpito una terra di povertà estrema, la terra degli ultimi. Ci chiederemo almeno perché esistano ancora degli "ultimi" la cui visibilità sociale debba collocarsi a livello di terremoto, o di estinzione. Ci chiederemo perché le case crollano lì, dove sono fatte così, dove la gente da proteggere è gente da niente. Ci chiederemo se dipende da noi che sia gente o sia gente da niente. Non ci fermeremo finché non ci sia giustizia. Ma il minimo è di essere sicuri di averli confermati come fratelli nostri, nell’abbraccio definitivo dove l’uomo sofferente è accolto per la vita, e dove la vita è intesa come dono.A vincere le schiere della morte, nella sfida della natura, l’inventiva è l’intelligenza dell’amore.