Genova è città cuore della poesia. Pochi lo sanno, ma Genova è una delle poche città del mondo ispiratrici di poesia. Che Roma sia capitale di poesia è ovvio: capitale del mondo antico, fucina di poeti leggendari. Virgilio Orazio Ovidio, Lucrezio, Properzio, Catullo... Così Londra: capitale del mondo nel XVI secolo, capitale fondatrice di poesia: Shakespeare, Marlowe, Ben Johnson, altri fuoriclasse. Come normale che Parigi capitale, dopo il sommo Villon, veda Hugo e Baudelaire a cantarne luci e tenebre. Venezia è città magica per antonomasia, normale che la capitale edificata sull’acqua incanti i poeti, Byron, Shelley, Brodskij. Genova ha un fascino rapinoso e strano. Mai meta dei viaggiatori del Gran Tour, che vi passavano per giungere a Lerici, e di lì scendere in Etruria, e poi a Roma, è la capitale che apre le rotte al Nuovo Mondo: il poeta americano Walt Whitman celebra il navigatore genovese come uno dei grandi spiriti fondanti dell’umanità. Il suo poema su Colombo porta il mito di Genova in America nell’Ottocento, a metà del secolo, accanto ai miti della foresta, dell’anima del mondo, a quello del mare del suo sodale Melville. La condizione geografica di Genova – giustamente ricordata in queste tragiche ore – di città compressa tra montagna e mare, non frustra sin dalle origini il carattere del genovese, anche se lo segna di una certa arguta e simpatica asprezza espressiva, sicuramente antiretorica.
Ma quella posizione angusta eccita ed esalta il cuore dei genovesi, che schiacciati dalla montagna, anziché valicarla espandendosi all’interno, si slanciano per l’alto mare aperto. I palazzi dei signori e dei mercanti, dei ricchi borghesi, sono spropositatamente larghi e arditamente alti, indifferenti allo spazio che li stringe: oscillano come chiglie di immensi vascelli. Genova folgora poeti folgoranti: Dino Campana, il più vertiginoso della poesia italiana del Novecento (opinione non solo mia, ma sempre ribadita da Mario Luzi), giunge a Genova per imbarcarsi, sul mito di Colombo, verso l’America. Resta incantato dalla città emorragica e rosseggiante, dai suoi “cieli elettrici”, dalle sirene nel porto, dalle donne genovesi, scrive un poema che porta Genova al vertice del sogno. Giorgio Caproni canta in Genova il magico e inquietante Labirinto dell’età postclassica, le salite, i vichi, i meandri, le apparizioni. Valery e Frénaud, due grandi poeti francesi, ne vivono l’incanto rapinoso e tormentante. Genova appare ai poeti che vi giungono come visione, non paradisiaca, celeste, ma infuocata, ardente, baluginante. Arrivano, non come turisti colti, ma viaggiatori cercanti un porto. Si trovano di colpo in un miraggio vivente della Notte, con la sua magica pienezza.
Lì nasce la “scuola genovese”, la prima e più alta della canzone d’autore italiana. Il cantautore non è poeta, perché la parola non è assoluta, ma fusa nella musica, ma certo legato alla dimensione della poesia. Certo Genova crea e alimenta uno squadrone formidabile: dai massimi Tenco e Paoli a Bruno Lauzi, Umberto Bindi, e poi De André, e poi Fossati. Genova suscita energia poetica, benefico iodio inebriante, ispira, nel suo contrasto di luce e buio, vico e energia industriale, incanto marino e clangore metallico del porto, è una rappresentazione dell’anima poetica del mondo, vulcanica, ribollente, interrotta da incanti. Piango con Genova. E la canto. Con Dino Campana, «Dilaga la piazza al mare che addensa le navi/ inesausto/ Ride l’arcato palazzo rosso del portico grande:/ Come le cateratte del Niagara/ Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda/ urgente al mare: /Genova canta il tuo canto!».