«Quello che più mi ha colpito era la folla lungo le strade, i papà e le mamme che alzavano i loro bambini per farli vedere al Papa perché il Papa li benedicesse. Come dicendo: "Questo è il mio tesoro. Questa è la mia speranza. Questo è il mio futuro. Io ci credo". ùQuesto mi ha colpito: la tenerezza, gli occhi di quei papà e di quelle mamme. Bellissimi, bellissimi. Questo è un simbolo, un simbolo di speranza, di futuro. Un popolo capace di fare bambini e poi farli vedere così, come dicendo "questo è il mio tesoro", è un popolo che ha speranza e ha futuro». L’ultima immagine rimasta a Francesco del grande viaggio in Colombia, dice in aereo, tornando, ai giornalisti, sta negli occhi di quella gente, con i bambini in braccio sporti verso il Papa con gioia e orgoglio.
Un futuro, certo, ma quale passato, alle spalle. 53 anni di guerra intestina, oltre 220 mila vittime, e orfani, e vedove, e mutilati; un popolo di uomini e donne distrutti dal dolore. «So di posare i piedi su una terra sacra, irrigata del sangue di migliaia di innocenti», ha detto Francesco. Che cosa resta di un Paese spazzato da un’infinita guerra civile? Soltanto sangue, odio e polvere, potresti pensare. Eppure dal pellegrinaggio del Papa in questo Paese massacrato salgono altre parole: riconciliazione, perdono. Certo, non un facile perdono, ma un perdono tormentato, lavorato, cesellato con mani ferite in anni di dolore e preghiera.
Ne è l’icona più forte il Cristo Nero di Boyayà, un crocifisso mutilato delle braccia e delle gambe. Era in una chiesa in una regione sul Pacifico in cui trovarono la morte, in un attentato delle Farc nel 2002, 79 civili che vi si erano rifugiati. Quel crocifisso scuro, detto anche Cristo Rotto, dominava la veglia, venerdì notte, a Villavicencio, col suo povero corpo straziato. Ma proprio lì sotto, davanti al Papa, il popolo colombiano ha testimoniato la sua domanda di riconciliazione. C’era un ex bambino soldato delle Farc e una ex miliziana delle forze paramilitari, c’era una vittima delle mine e una donna, Pastora Mira Garcìa, cui la guerra ha portato via prima il padre, poi il marito, poi una figlia, di cui ha ritrovato le spoglie solo dopo sette anni, e infine il figlio minore. Tre giorni dopo avere seppellito il ragazzo la donna ha ospitato una notte in casa sua uno sconosciuto giovane ferito. Quello al mattino ha guardato le fotografie appese alle pareti e ha confessato: sono stato io, che ho ucciso tuo figlio.
La testimonianza di Pastora Mira è declinata pianamente nel silenzio della grande assemblea. Dolore puro, dolore recidivo, feroce, che riapre e allarga sempre la stessa ferita. Come può quella donna esile, ci si domanda, avere retto questa immane quantità di sofferenza? Lo racconta al Papa, che visibilmente si commuove, e le risponde: «Tu lo hai detto molto bene: vuoi mettere tutto il tuo dolore, e quello di migliaia di vittime, ai piedi di Gesù Crocifisso, perché si unisca al suo e così sia trasformato in benedizione e capacità di perdono per spezzare la catena della violenza che ha regnato in Colombia. (...) È il Crocifisso di Bojayà che ti ha dato la forza di perdonare e di amare».
Il dolore e il sangue di un popolo, deposto ai piedi di un crocifisso mutilato, aggiunto alle sofferenze di Cristo per essere da Cristo riscattato. Il dialogo fra Francesco e questa donna colombiana scavalca la geografia e il tempo, si fa universale, c’entra, profondamente, con tutti gli uomini, con tutti noi. Quell’abbraccio sotto a un Cristo annerito da una bomba toglie il fiato. E gli occhi, gli occhi di quei quattro, vittime o ex carnefici, ma tutti qui a domandare, dal profondo di sé, pace. Quegli occhi ha lasciato la Colombia a Francesco; e quelli rinati, festosi, dei giovani padri, delle giovani madri lungo le strade, che allungavano i figli piccoli a una sua carezza. Un popolo che culla fiero il tesoro dei suoi figli ha già passato il crinale dell’odio e della morte. Un popolo così, ha detto il Papa con quegli occhi nella memoria, ha già speranza, ha già futuro.