C’è una sofferenza che toglie il fiato, che spegne la voce, che piega le spalle. E ti lascia lì da solo, senza più parole da dire, con gli occhi asciutti di lacrime e nel cuore un’unica domanda, forse la sola possibile: perché? Come un pellegrino alle radici del dolore innocente il Papa si è immerso fino in fondo nell’abisso dell’orrore, ha accarezzato chi potrebbe non avere un domani, ha pregato davanti alla croce del giusto ingiustamente messo a morte. Auschwitz, l’ospedale pediatrico di Prokocim, la Via Crucis di Parco Jordan le tappe di un viaggio nel cuore dell’uomo, l’unico 'posto' in cui la solitudine può trovare un senso, il buio lasciare il posto alla luce, un grido diventare preghiera. E per un attimo la Pasqua della Gmg, la festa, i colori hanno lasciato spazio al Venerdì Santo. No, non è una contraddizione, perché non esiste Risurrezione senza morte, non c’è riscatto senza colpa, non c’è libertà senza schiavitù. Non c’è misericordia di Dio senza la miseria dell’uomo. Povero, schiacciato e solo, sembra un paradosso, perché libero, perché figlio di un Padre che accetta persino di essere rifiutato, e negato. «Chi ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te» dice sant’Agostino. È il mondo che dimentica Dio quello che apre le porta dei lager. È una società che rifiuta la comunione quella che arma i fratelli uno contro l’altro. È una storia che rifiuta il futuro quella che alza muri contro l’accoglienza del perseguitato e del povero. È un’umanità senza misericordia quella che rifiuta l’altro, che scarta il povero, che disprezza il migrante. E invece è proprio qui, osserva Francesco, che si gioca la credibilità del cristiano, nell’abbraccio a chi è ferito nell’anima, nell’ascolto di chi nessuno vuole, nell’attenzione al profugo, al senza tetto, alle vittime della violenza, innocente perché non c’è mai una ragione al rancore, all’odio, al rifiuto.Ecco allora che le opere di misericordia, come grani di un rosario di fraternità, sono il modo per restituire all’uomo la sua vera vocazione, quella di lasciarsi amare, cioè di consentire a Dio di essere Padre. Siamo chiamati a servire Gesù crocifisso in ogni emarginato, sottolinea Francesco, in chiunque abbia fame e sete. In chi è in carcere, disoccupato, malato, perseguitato. Il legno della croce di Gesù come spartiacque della storia, come tribunale d’amore in cui si giudica quanto e come saremo stati capaci di condivisione, di umanità, di compassione. Simbolo della morte e della sconfitta, è vero, ma soprattutto strumento di salvezza, sostegno nel cammino, ricettacolo che prende su di sé ogni sofferenza, tutte le colpe dell’uomo. Perché sì siamo colpevoli, il nostro peccato si chiama rifiuto, ha il volto della solitudine del vecchio abbandonato in un ospizio, del bambino rifiutato, ha il sigillo della nostra indifferenza. Siamo noi che abbiamo permesso al senza tetto di morire di freddo per strada, che abbiamo costretto il migrante a fuggire dalla propria terra, che armiamo l’odio dei potenti. E’ colpa della denuncia che non abbiamo fatto, della mancata ribellione, dell’accettazione passiva della corruzione. Eppure anche nel buio più nero esiste sempre una possibilità di riscatto, una luce accesa ad indicare la strada di casa, un uomo che si china sul dolore del fratello. A ricordarci che senza la misericordia non possiamo niente, che possiamo ancora alzare gli occhi al cielo, che c’è sempre tempo per imparare a dire grazie. La via della croce è la strada della vita e dello stile di Dio, insegna Francesco. È la luce che illumina il buio della notte più nera, che dà significato al silenzio, che pesa ogni singola lacrima, che semina speranza persino sul cammino di chi non crede più a niente.