Anche i più severi critici di certe improvvide esternazioni di alcuni magistrati dovrebbero fare un salto sulla sedia nel leggere la notizia che due consigliere del Csm avrebbero invocato una censura disciplinare per il magistrato Stefano Musolino (segretario nazionale di Magistratura democratica) per alcuni suoi interventi pubblici critici verso il ddl “sicurezza”. Lo stupore aumenta se si leggono le frasi incriminate: «Siamo molto preoccupati. Esiste un problema di gestione del dissenso che non può essere affrontato attraverso strumenti penali.… I conflitti possono essere deleteri se non si basano sul rispetto reciproco delle posizioni e possono essere invece molto fruttuosi se vengono gestiti e governati. Ma per farlo, non si può ricorrere allo strumento penale. Non si possono inventare nuove norme per radicalizzare il dissenso e, addirittura, criminalizzarlo». E ancora: «Non esiste un’imparzialità come condizione pre-data, come stato del magistrato, l’imparzialità è qualcosa verso cui si tende».
Parecchi anni fa, in un contesto politico molto diverso, quando a essere criticata da alcuni magistrati era una riforma voluta da un governo di centro-sinistra, ci capitò di ricordare che Kant, in Che cos’è l’illuminismo, rivendicava, per chiunque sia inserito in un particolare meccanismo statale, il diritto di fare pubblicamente uso del proprio intelletto. E che, a ben vedere, il filosofo tedesco affermava qualcosa di più: è quasi un dovere, per il servitore dello Stato, mettere la sua esperienza e competenza tecnica a disposizione del miglior funzionamento dell’amministrazione, non rinunciando a parlare in prima persona.
Ma, chiarito questo punto, ricordavamo anche che il magistrato e storico Alessandro Galante Garrone ci rammentava che nell’espressione del proprio pensiero il magistrato deve «avere, nelle forme, un self control particolare». Spiegando che, nei suoi interventi esterni, «il giudice deve evitare qualunque atteggiamento che lo faccia apparire legato ad una piuttosto che ad un’altra parte, o che possa far sorgere, nella persona che da quel magistrato si trova ad essere giudicata, l’impressione, seppure erronea, di una pregiudiziale tendenza alla simpatia o all’antipatia». E – in piena epoca post “Mani pulite” – scriveva: «Soprattutto negli anni scorsi, ho trovato qua e là un’imprudente accentuazione di passione politica unilaterale da parte di qualche giudice» (Il mite giacobino, 1994, pp. 45-46). Esercitare il diritto di critica non può voler dire lanciare anatemi e interdizioni morali; atteggiamento che è sempre infruttuoso ma che è ancor più irritante se assunto da un magistrato, perché da troppi anni serpeggia, in un’ampia fascia dell’opinione pubblica, la tendenza a vedere i pubblici ministeri come tutori della morale più che come garanti dei diritti. Aggiungeva, il nostro maestro, che nel parlare in pubblico il magistrato deve rifuggire da atteggiamenti di schieramento, senza farsi trascinare in personalizzazioni. Senza trattare come “nemici della democrazia” coloro che sostengono tesi opposte. Senza pensare di dover fermare i “barbari alle porte”. Demonizzare chi la pensa diversamente da te può servire a suscitare l’applauso della platea. Ma non fa fare un passo avanti.
Ebbene, ci pare che le espressioni usate da Stefano Musolino non abbiano affatto superato questi limiti, delineati da Galante Garrone.
Le due consigliere del Csm che oggi vorrebbero censurare Musolino aggiungono una circostanza illuminante: evidenziano che in un caso egli ha pronunciato le sue critiche a un convegno di un’associazione «avente una spiccata connotazione antigovernativa». Domanda: se il magistrato fosse intervenuto ad un convegno “governativo”, tutto sarebbe andato bene? Si pretende che i magistrati aprano bocca solo in consessi “filogovernativi”? Alle due consigliere vorrei ricordare un fatto di 34 anni fa. Paolo Borsellino – che in gioventù era stato dirigente del Fuan, associazione degli universitari di estrema destra – nel settembre 1990 partecipò a Siracusa alla Festa nazionale del Fronte della Gioventù (organizzazione giovanile del Msi); salutando i giovani missini con queste parole: «Potrei anche morire da un momento all’altro, ma morirò sereno pensando che esistono giovani come voi a difendere le idee in cui credono». Il Msi, all’epoca, aveva una “spiccata connotazione” contraria al Governo (un “pentapartito”, Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli, presieduto da Giulio Andreotti). Il ministro della Giustizia dell’epoca era il grande antifascista Giuliano Vassalli; il quale neppure per un secondo pensò di esercitare l’azione disciplinare contro Borsellino. Avrebbe forse dovuto farlo? Attenzione a invocare le censure. Soprattutto, attenzione alla logica dei “due pesi, due misure”. E non dimentichiamo la lezione di uomini come Vassalli.
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