Dialoghi di vita e di morte, a che punto è la notte? Chissà se abbiamo finito di decifrare la sentenza della Corte costituzionale n. 135 del mese scorso, e capire ciò che ha ribadito sulla inviolabile tutela della vita e quanto ha slargato i pertugi dell’assistenza al suicidio. Ma attenzione: il giudizio della Consulta non è il Codice del fine vita. Esso si innesta in modo “incidentale” in un processo penale dove l’aiuto al suicidio è l’imputazione. Quel delitto rimane delitto, e solo in casi speciali non viene punito. Il Parlamento è invitato a far legge (senza troppa voglia, col solito rischio di supplenze giudiziarie). Ma un conto è il “nuovo” art. 580, un altro conto è la questione di fondo sulla morte volontaria, che alcuni propongono come diritto individuale. Qui irrompono gli orizzonti etici e giuridici.
La vita è per ogni essere umano il dono d’una identità ricevuta. Così unica, così grande per ogni piccolo uomo, nell’immenso universo. Fragile e preziosa, ogni vita accresce la bellezza della storia dell’Essere. Essa prende senso e restituisce senso alle altre vite in essenziale legame relazionale. Ci apparteniamo, ognuno tutti; siamo famiglia umana, siamo villaggio umano. Ci allietano i nati, ci addolorano i morti. Ci è istinto “la santa voglia di vivere”, ci è destino l’appuntamento con la morte. L’arte medica s’ingegna di rimandarla, con gli umani miracoli delle sue cure e delle sue invenzioni, ma alla fine si arrende. Ora ognuno avverte che c’è nella parola “fine” un problema di senso; la vita si perde o si compie? Si annienta o varca una soglia? E persino chi nega, o rinnega, domande così, avverte che la vita ha una sua infinita dignità in tutto il suo corso, e che un fondamentale principio etico chiede la sua protezione. Né suicidio né eutanasia sono eticamente accettabili.
Eppure ci sono leggi nel mondo (in pochi Paesi, per il vero) che ammettono l’eutanasia e il suicidio assistito. Vi sono teoremi, anche da noi, che celebrano la morte volontaria come diritto di libertà (liberi fino all’ultimo di decidere quando e come morire), con un attivismo che cerca, e procura, le occasioni dei casi limite per far breccia nel muro delle norme di tutela della vita. Il punto di forza di questa deriva è la seduzione dell’individualismo libertario. E su qualcosa riesce a spuntarla, quando la libertà si confina in se stessa, nella sfera privata, senza apparente danno sociale. Proprio qui può accadere la divaricazione fra l’etica (ciò che è buono) e la legge che si contenta del “minimo etico” sul piano sociale (ciò che è ammesso). Proprio qui si innescano allora i dibattiti senza fine fra chi sostiene che ciò che la legge ammette è giusto e buono di suo e chi in nome dei principi etici non negoziabili rifiuta che le leggi dettino norme ammissive di condotte immorali.
Non senza equivoci incrociati, per i differenti linguaggi. Per esempio la legge 219 del 2017 sulle Dat (le Disposizioni anticipate di trattamento). Un suo caposaldo è il consenso informato; e il corollario del possibile rifiuto d’una terapia salvavita, o di un trattamento di sostegno vitale, lasciandosi morire. La scelta del paziente (da caso a caso, se si tratti di accanimento o di terapia proporzionata) può essere eticamente giusta o sbagliata, ma dal lato giuridico è escluso che gli si infligga a forza la terapia rifiutata. Chi vede in ciò una forma di eutanasia sbaglia alfabeto.
E proprio a una sintesi di alfabeto provvede ora il “Piccolo lessico del fine-vita” pubblicato dalla Pontificia Accademia per la Vita. L’impressione di fondo, lo spirito che lo muove, è il bisogno di chiarezza: capirsi, e per questo ascoltarsi, e parlarsi, e non andarsene via dal dialogo, che è tavolo d’attesa di mediazioni possibili, e non un ring. C’è chi ha voluto accentuare, nei commenti, le “aperture” nuove; alcuni salutandone il coraggio, altri biasimandone l’azzardo.
Ma gli uni e gli altri con scarsa alfabetizzazione, se hanno trascurato i capisaldi operativi del documento, in tema di cura, di accompagnamento, di presenza solidale, di relazione; e con quella sollecitudine che muove dal Vangelo, e sta sullo sfondo come un pedale d’organo. È questo il succo: i trionfi della morte sono il fallimento dell’amore. L’amore cura la vita, sempre. Ma l’amore comanda anche di restare lì, di interloquire anche nella sfera terrestre, di cercare che il punto di mediazione raggiungibile nelle “leggi imperfette” sia il più rispettoso possibile dei valori etici. Anche nella notte, qualche luce.
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