Il suo papà l’aveva detto, «Alfie appartiene all’Italia». Aveva detto così dopo la corsa dell’ultima speranza nel nostro Paese, e il contatto con l’Ospedale Bambino Gesù e il colloquio con il papa Francesco. Adesso è vero, Alfie appartiene all’Italia, il nostro governo gli ha concesso la cittadinanza, Alfie è italiano. E qualcosa dovrebbe pur cambiare, sul piano diplomatico, sul piano delle relazioni fra governi, circa la possibilità di movimento di un cittadino italiano, a cui medici italiani offrono di prestare le cure ancora possibili, secondo la volontà del padre e della madre.
Che i medici inglesi dicano che non ci sia più nulla da fare se non staccare il respiratore e farlo/lasciarlo morire non è che il loro pensiero, la loro spugna gettata; ma se nel mondo altri medici, altri ospedali d’eccellenza offrono un altro modo di trattare il malato, di scrutare la diagnosi oscura, di proporre in ogni caso un accompagnamento di totale soccorso al bimbo e ai suoi genitori, impedirne il trasferimento è contrario all’etica medica. Quel bimbo non appartiene all’ospedale, non è prigioniero di quel letto, anche se le notizie di una notte carica di angoscia parlano della determinazione a chiudere il caso con la morte del bambino.
Ancor più incredibile ferita alla giustizia (ma no, più a fondo: all’etica del diritto) è la sequenza dei verdetti delle Corti. Tutte le Corti, basse, alte, di prima istanza, di appello, di grado supremo, tutte a dire che il bene, il bene del bambino è la morte. E i quadri di questa tragica recita sono stati incalzanti, rapidi, brevi, un ultimatum dietro l’altro. E la speranza dei due genitori (il bene, il loro bene, in una versione espulsa dall’aula) a rinascere ogni volta da quelle ripetute agonie e a tentare di nuovo il gradino più alto, la rupe più dura. Fino alla Corte europea dei diritti umani, che fulmineamente «non ha ammesso», non ha neppure ammesso che un’eco di quel grido ultimo giungesse nella sua sterile aula; non ha neppur provato a interloquire nel destino di Alfie e dei suoi genitori con una parola di chi sa cos’è il dolore.
Quest’ultimo segmento «inammissibile» era forse già scritto, perché Strasburgo non avrebbe potuto forzare in concreto le sentenze inglesi. Ma qualcosa in tema di art. 8 della Convenzione Cedu (rispetto della vita privata e familiare) andava detto, gridava da sé.
Perché è questo l’aspetto disumano: incrudelire verso due genitori provati già da un’immenso dolore. Se la sintesi dello stato di salute di Alfie, incrostata nella definizione delle aule giudiziarie come «una condizione neurodegenerativa catastrofica e incurabile (untreatable), progressiva» strapparlo alle braccia dei genitori che cercano le cure dell’estrema speranza altrove, fosse in capo al mondo, è una pugnalata al diritto familiare. E se pure accadrà che nessuno salverà quel figlio, se non un miracolo, è già miracolo questo amore che non s’è arreso.
Anche il governo italiano ha fatto un gesto che rappresenta, sul piano internazionale, un impegno ultimativo. Senza avere purtroppo la forza di attrarre qui con certezza Alfie, bimbo italiano che resta ancora suddito di Sua Maestà britannica. Possiamo ora dirlo figlio nostro: ma è già figlio del mondo. Restano in noi e nel mondo amore e sofferenza insieme: non chiameremo 'giustizia' una gelida violenza che espropria la vita d’un figlio. Quand'anche le cure non vincano la morte, le danno altro senso mentre danno senso alla vita.
A Roma, sappiamo, non è prenotabile una vittoria certa sulla malattia, e dovunque potrebbe venire il momento estremo che le terapie di sostentamento vitale perdano ragione. Ma se il cammino sarà segnato, questo è giusto: che questo angelo e i suoi genitori lo facciano insieme, e con loro i medici, preservando il bambino dal dolore, curando e amando fino all'ultimo; e senza alle spalle l’ombra di pollice ritto o di pollice verso di nere toghe.