L’iniziativa del Ministero della Salute per un "Fertility Day" ha provocato dibattiti molto accesi, che spesso sono sconfinati in poco composte forme di protesta e di sarcasmo, per la "qualità" delle iniziative grafico-pubblicitarie promosse (e sulle quali, forse troppo precipitosamente, Beatrice Lorenzin ha dichiarato di non avere difficoltà a fare marcia indietro). Lasciando da parte questi profili, davvero marginali, possiamo individuare alcuni punti cruciali che sono emersi da questi dibattiti. Il primo è che nessuno, o quasi, tra coloro che hanno criticato la ministra è arrivato a negare la gravità della crisi demografica che colpisce l’Italia e che è causata in massima parte dal volontario rinvio della decisione di concepire, che ha portato l’età media in cui una donna ha il suo primo figlio oltre i trent’anni. Credo che sia la prima volta che su questo punto, davvero essenziale, non abbiamo sentito ripetere le affermazioni insulse, andate di moda fino a ben poco tempo fa, quelle di chi continuava ad invitare gli italiani a non preoccuparsi del calo demografico, che si sarebbe potuto fronteggiare grazie alla procreazione assistita o ai flussi immigratori.In effetti, basta un minimo di ragionamento per capire che la fecondazione artificiale non può, per la sua invasività, per l’altissimo numero di insuccessi, per i suoi costi, che restare una prassi statisticamente marginale. Ancora più semplicistica e ingenua l’ipotesi che il posto degli italiani "non nati" possa essere stabilmente occupato da immigrati: è impossibile per qualsiasi Paese, e per l’Italia in particolare, mantenere o semplicemente proteggere la sua identità storica, artistica, culturale, religiosa ed economica, quando si trovi nell’arco di poco decenni a essere abitata, in alta percentuale, da stranieri portatori di tradizioni belle e rispettabili, ma anche radicalmente diverse. L’immigrazione, se ha come finalità l’integrazione e non il mero sfruttamento degli immigrati, ha bisogni di tempi lunghi per realizzarsi e il crollo demografico non la favorisce, ma paradossalmente ne amplifica la problematicità. La questione, insomma, non solo è reale, ma ormai urgentissima e finalmente sembra che da tutte le parti ci si sia convinti di questa verità. Viva il "Fertility Day", quindi? È giusto esortare le italiane a fare figli e soprattutto convincerle a non rimandare la decisione di diventare madri, facendo violenza alle indicazioni dell’«orologio biologico»? Niente affatto, dicono i critici della ministra. Da una parte (e qui non hanno tutti i torti, come su questo giornale è già stato ricordato da Massimo Calvi) sostengono che il fatto che le donne facciano meno figli dipende anche da condizionamenti sociali, che nessuna campagna ministeriale è in grado di alterare. Dall’altra, però, interpretano l’iniziativa di Lorenzin come un attentato alla libertà sessuale delle donne, come un’indebita intromissione nelle loro scelte procreative, che andrebbero considerate insindacabili e lasciate alla loro totale autonomia. E qui arriviamo al punto cruciale della questione. Questo argomento, che è dilagato nei giornali e nei media, mostra che non si riesce più a percepire come maternità e paternità abbiano un valore antropologico intrinseco e oggettivo (peraltro riconosciuto da tutte le culture e da tutte le tradizioni religiose).Divenire madri e padri non significa infatti rendere un cieco omaggio alla "natura" o soddisfare desideri personali e privati (per quanto rispettabilissimi). Significa piuttosto collocare se stessi nel contesto della famiglia umana, che è per sua struttura diacronica e generativa e la cui dimensione personale e affettiva ha certamente una radice fisico-biologica, ma ancor più possiede una vocazione che va coraggiosamente ritenuta come "metafisica".