Fare unità istituzionale nell’epoca dei radicalismi
mercoledì 25 marzo 2020

Il modo in cui le democrazie parlamentari affrontano le emergenze globali si è talora articolato, in passato, in due fasi logicamente e spesso anche cronologicamente distinte. Della prima si è più volte ragionato – su queste pagine e su quelle di altri giornali – nelle scorse settimane: un corpus di regole e di provvedimenti emergenziali viene adottato, seguendo in alcuni casi procedure eccezionali, in altre sulla base di percorsi costituzionali previsti in anticipo. Nel caso italiano, in assenza di una procedura costituzionale per le situazioni di emergenza, il governo, dopo aver dichiarato lo stato di emergenza sanitaria, ha sinora provveduto con alcuni decreti legge e, soprattutto, con una serie di decreti del presidente del Consiglio. Percorsi diversi dal punto di vista delle tecnicalità giuridiche, ma convergenti nella logica di fondo, stanno ora seguendo altri esecutivi democratici dell’Occidente (quello spagnolo, per esempio).

Tuttavia l’emergenza, producendo una concentrazione di poteri nel governo e nella sua presidenza, pone inevitabilmente altri problemi costituzionali. Nelle circostanze attuali sono saltati i corposi limiti che il sistema multilivello pone al governo: si veda il diverso rapporto fra Stato e Regioni nel nuovo contesto emergenziale, ma anche l’atte-nuazione di tutti i vincoli europei, dal Patto di stabilità in giù. E non potrebbe che essere così. Al tempo stesso, l’azione parlamentare si rivela ogni giorno più problematica, sia per il rischio di riunire le Camere nel contesto di una pandemia, sia per le difficoltà di far funzionare 'da remoto' un Parlamento: le soluzioni sono allo studio, ma presentano non pochi elementi problematici.

Del resto anche nei periodi di guerra (da noi, ad esempio, negli anni 1915-18) l’attività parlamentare finisce per rarefarsi. Ma l’effetto di tutto ciò, concentrazione dei poteri a parte, è di svuotare la funzione di controllo dell’opposizione, proprio nel momento in cui i poteri del governo aumentano per far fronte allo stato di necessità. Non deve dunque stupire che nelle democrazie parlamentari le macro-emergenze, soprattutto le guerre, abbiano comportato la sospensione dell’ordinaria dialettica politica attraverso la formazione di esecutivi di unità nazionale.

Da noi accadde nel 1916 con il governo guidato dal decano dei deputati, Paolo Boselli e poi l’anno dopo, all’indomani di Caporetto, con la nascita dell’esecutivo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando. In Inghilterra nel 1916 un governo liberal-conservatore condotto da David Lloyd George aveva soppiantato l’esecutivo liberale di Herbert Henry Asquith e nel 1940 il governo di unità nazionale condotto da Winston Churchill ripeté quella esperienza sostituendo il governo conservatore di Neville Chamberlain.

L’unità nazionale, coinvolgendo nell’organo di vertice dell’esecutivo anche le opposizioni, o parte di esse, e sulla base dell’esigenza di fronteggiare la guerra o l’emergenza, mira da un lato a rafforzare la base politica (e la legittimazione democratica) dell’esecutivo in un passaggio difficile, dall’altro a recuperare all’interno dell’esecutivo quel pluralismo che in Parlamento finisce per essere compresso nel contesto del clima di unità nazionale. Nel dopoguerra italiano si è più volte fatto ricorso a soluzioni di questo tipo, come i Governi di solidarietà nazionale guidati da Giulio Andreotti fra il 1976 e il 1979 e l’esecutivo tecnico di Mario Monti dal 2011 al 2013. Come si vede da questi esempi, le forme concrete che l’unità nazionale possono essere molto diverse da quella di un governo con ministri di tutti i partiti: i governi Andreotti III e IV erano monocolori Dc, il governo Monti era composto interamente di non parlamentari (a parte il presidente, che era senatore a vita). Dal 17 marzo il primo governo nato dal Coronavirus ha visto la luce in una democrazia europea consolidata: il Belgio.

La premier, Sophie Wilmés, in carica ad interim dal 27 ottobre scorso (in seguito al trasferimento del premier uscente Charles Michel – dimissionario dalle elezioni svoltesi in maggio – alla guida del Consiglio europeo) ha formato, infatti, un nuovo governo, sulla base di un accordo nazionale sottoscritto da nove partiti e imperniato sull’esigenza di avere un governo nella pienezza delle sue funzioni per far fronte al Coronavirus. Il nuovo governo ha giurato nelle mani del Re senza strette di mano e mantenendo le distanze di un metro fra un ministro e l’altro e il dibattito parlamentare (dopo il quale l’esecutivo ha avuto la fiducia) si è svolto con la partecipazione dei soli capigruppo, per ridurre i rischi di contagio.

Ma soprattutto il governo nasce per il coronavirus, come risulta dalla dichiarazione di politica generale letta dalla premier in Parlamento, in cui vi è anche l’impegno a ripresentarsi alla Camera fra sei mesi, quindi una sorta di clausola di durata, legata all’emergenza. Il caso belga è per vari aspetti unico e l’accordo nazionale è servito anzitutto a dare comunque al Paese un governo nella pienezza delle sue funzioni, mentre negli altri Paesi europei vi sono governi in carica sostenuti dalla fiducia parlamentare. Ma il primo 'governo coronavirus' solleva il legittimo quesito sulla riproducibilità di quella soluzione. Possono i nostri esecutivi sospendere la dialettica democratica in un contesto emergenziale senza coinvolgere l’opposizione nella cabina di regia? E le opposizioni sono disponibili al salto di qualità morale e politico richiesto da una sfida di questo tipo o anche solo a impostare una più distesa relazione tra esse stesse e la maggioranza? E, in ogni caso, grandi coalizioni emergenziali sono davvero possibili in un’epoca in cui destra e sinistra si sono radicalizzate in tutto il mondo? Se l’emergenza dovesse prolungarsi, il problema finirà probabilmente per porsi anche al di fuori dello strano contesto belga.

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