Abbiamo davanti una sfida difficile. Questa seconda ondata di Covid, rispetto a quella di marzo, non reca con sé una sfida chiara che comporta un’indicazione semplice da osservare (tutti a casa) ma è un insieme di misure frammentate, una miriade di precauzioni e di norme che ormai ciascuno declina in modo personalissimo e a volte anche arbitrario. L’effetto è una crescente incertezza, un’ansia palpabile rispetto al futuro immediato che induce anche diffidenza verso le interpretazioni altrui delle regole collettive. Questa sfida soffocante ma per certi versi non misurabile induce in me una domanda: come può uno che ha fede e che prega essere un punto di luce, piccola ma sicura, in questo caos sociale ed emotivo? Le risposte, a mio modo di vedere, si radunano in tre grandi filoni.
Il primo filone è quello di cercare di essere più espliciti nel dirsi “ti amo” nelle sue diverse declinazioni, quella sponsale, quella dell’amicizia, quelle della vita piccola e quotidiana relativa ai colleghi di lavoro: “Meno male che ci sei”, “È importante per me che tu sia qui”, e così via. Le regole relative agli assembramenti e alle mascherine rendono più opachi o per nulla percorribili, i canali della prossimità fisica, del contatto corporale, dello sguardo amichevole. La felicità non si comunica solo con gli occhi: serve anche tutto il resto della faccia, in particolare quella metà coperta dalla mascherina. “Contatto fisico” è darsi la mano, toccarsi nella spalla, essere vicini fisicamente, varcare la soglia della prossimità: proprio quel confine che con il distanziamento dovuto e necessario è diventato per tutti noi un muro invalicabile.
Queste mie considerazioni non vanno lette nel contesto di chissà quale love story ma nel rapportarsi più quotidiano e umile. Penso per esempio all’amicizia tra persone adulte. Non è frequente che due cinquantenni usino nell’ambito della loro amicizia espressioni verbali affettuose, ma in tempi di pandemia bisognerebbe farlo. Altrimenti questa mera assenza genererà mancanza di complicità, malumori, incomprensioni, conflitti, interpretazioni distorte, che solo una verbalizzazione più esplicita dell’interesse e felicità reciproca può scongiurare. Pensiamo a un ufficio, a una classe, a uno studio medico, alla sala riunione dei professori di una scuola. Prima del coronavirus era tutto un incrociarsi, uno sfiorarsi, un prendere il caffè assieme mentre ci si diceva, con le espressioni del volto e del corpo: meno male che ci sei, aiutami, ci sono qui io che sono al tuo fianco, non sei solo nell’affrontare quel problema. Adesso tutto ciò è compromesso. Quando non siamo a casa in smart working siamo ad almeno un metro di distanza, la mascherina ci mutila metà del volto e, chi porta gli occhiali come il sottoscritto, ha spesso anche la vista appannata. Per questo è necessario dirsi “è importante per me che tu sia qui, che tu sia al mio fianco”, utilizzare tutto l’arcobaleno delle verbalizzazioni. Oppure, quando si parla al telefono con un amico, dirgli quanto sia preziosa per noi la sua amicizia, quanto è stato importante per noi avere qualcuno che ci ascolti e con cui parlare. Per fare ciò – e questo è il secondo consiglio – è necessario dedicare un po’ più di tempo agli altri, quindi fare un po’ meno cose. Da marzo scorso ho scoperto di stare molto di più al telefono. Agli inizi mi sembrava un’enorme perdita di tempo, poi ho capito che era il modo naturale con cui le nostre relazioni cercavano di ricostituirsi e di reagire dinnanzi alla pandemia.
Ed ecco il terzo punto: parlare assieme ma farlo in un’ottica di memoria e speranza cristiana, quello che io chiamo “presente vigile”. Il tempo della santità è il presente vigile. Perché Lui è eterno Presente e se noi vogliamo vivere sulle Sue orme dobbiamo vivere a Sua immagine un presente vigile. Il presente è vigile è un atteggiamento privo di malinconia e di blocchi verso il passato e che contemporaneamente non ha fughe in avanti rispetto al futuro: è dire assieme un sì a quella memoria e a quella speranza, che unite assieme, si chiamano progettualità.