Si coglie aria nuova nel panorama internazionale delle politiche migratorie. Dopo anni di rigida chiusura nei confronti dei cosiddetti “migranti economici”, il 2018 è terminato con interessanti segni di novità da parte di alcune delle economie più importanti del mondo, Giappone e Germania.
In Giappone, un Paese tradizionalmente chiuso nei confronti dell’immigrazione straniera, il Governo conservatore di Shinzo Abe ha fortemente voluto ed è infine riuscito a fare approvare un pacchetto di misure che favoriranno l’ingresso di lavoratori stranieri, provenienti principalmente dall’Asia sud–orientale: soprattutto Filippine, Vietnam, Myanmar. Il Governo giapponese prevede di attrarne 500.000 in cinque anni, e ha messo a bilancio una serie di interventi per facilitarne l’inserimento sociale: insegnamento della lingua, assistenza medica, sostegno all'educazione scolastica dei figli.
I vincoli non mancano. I permessi di soggiorno saranno di due tipi, uno valido inizialmente per cinque anni, per lavoratori non particolarmente qualificati ma in possesso di una certa conoscenza della lingua giapponese, e destinati a rispondere alle esigenze di 14 settori produttivi carenti di manodopera, dall’edilizia all’agricoltura, dalla sanità ai servizi alberghieri. Il secondo tipo di permesso riguarderà invece lavoratori altamente specializzati, autorizzati a farsi accompagnare dalle famiglie.
Il governo tedesco invece, dopo serrate trattative tra i partner della coalizione, ha raggiunto un accordo su una riforma legislativa che va nella stessa direzione, quella di un ampliamento delle possibilità d’ingresso per lavoro. I destinatari sono i lavoratori extracomunitari in possesso di un certificato di formazione professionale, quindi prevalentemente lavoratori manuali di livello intermedio, con sufficienti competenze linguistiche. Riceveranno un permesso di soggiorno di sei mesi per cercare un’occupazione in Germania, e dovranno provvedere al proprio mantenimento, ma potranno farlo lavorando anche a livelli inferiori.
Il governo prevede inoltre investimenti per l’insegnamento del tedesco all’estero, uno snellimento delle procedure burocratiche per il riconoscimento delle qualifiche, l’organizzazione di corsi dedicati di formazione professionale dopo l’arrivo in Germania. Non è invece passata l’innovazione più coraggiosa: quella che avrebbe consentito ai richiedenti asilo di entrare nel programma, indipendentemente dall’esito della loro domanda di protezione internazionale. Già 350.000 hanno trovato lavoro, ma i progressi sono frenati dall’incertezza sull’esito della procedura.
In prospettiva, uno degli effetti delle nuove norme dovrebbe essere proprio quello di disingolfare il canale dell’asilo, prevedendo un percorso alternativo per chi intende arrivare in cerca di lavoro. In entrambi i Paesi, quindi, l’economia, con le sue esigenze di manodopera, è riuscita a far intendere le proprie ragioni alla politica, sempre intimorita dai possibili contraccolpi elettorali delle aperture all’immigrazione. Vincoli e cautele dovrebbero servire a contenere le preoccupazioni di parte dell’opinione pubblica, mentre adeguati sforzi comunicativi stanno cercando di rendere più chiari i benefici delle nuove norme. Va ricordato che anche gli Usa hanno ampliato le quote d’ingressi per lavoro stagionale, destinato soprattutto all’agricoltura: un modo fra l’altro di contenere gli ingressi irregolari.
Sulla scena europea, un altro Paese è andato nella direzione opposta. Il governo ungherese, come i lettori di “Avvenire” sanno bene, è a sua volta alle prese con carenze di manodopera che frenano lo sviluppo economico, ma ha pensato di rispondere al problema con una nuova legge sul lavoro che estende la facoltà legale di ricorrere al lavoro straordinario fino a 400 ore all’anno: l’equivalente quindi di dieci settimane di lavoro in più, da sommare a quelle già lavorate normalmente (e pagabili a tre anni di distanza). Sindacati e oppositori l’hanno definita “legge sulla schiavitù”, ma le proteste di piazza non l’hanno fermata. Il nostro Paese non è la Germania, e neppure il Giappone. Ma forse, anche da questo questo versante, potremmo cominciare a mettere davvero in discussione la narrazione patologica dell’immigrazione che ha avvelenato il discorso pubblico negli ultimi anni.
Sociologo, Università di Milano e Cnel