Ogni Paese in meno nella lista di quanti ancora prevedono la morte tra le possibili condanne suscita un doveroso e universale sollievo. Ma un simmetrico orrore dovrebbe accompagnare la notizia di uno Stato che torna a rendere lecita la pena capitale, pur chiamandola in modo diverso. Il Belgio è a un passo dall’effettuare questo inaudito dietrofront, pronto a dare la morte per mano di dipendenti pubblici e in una struttura statale a un detenuto che chiedeva solo di essere curato. La vicenda – nota ai lettori di
Avvenire, che per primi hanno potuto conoscerla nel settembre scorso – è quella di Frank Van den Bleeken, 52enne omicida e stupratore seriale belga, condannato negli anni Ottanta all’ergastolo, affetto da disturbi della personalità al punto da sentirsi vittima di se stesso e di non voler chiedere sconti di pena per il timore di poter tornare a delinquere. Dopo aver lungamente sperato nell’affidamento a un centro specializzato per il recupero di casi come il suo, ha gettato la spugna davanti all’ultimo diniego delle autorità giudiziarie del suo Paese che si sono rifiutate di mandarlo a curarsi in Olanda. E ha reclamato l’accesso all’eutanasia, che dal 2002 il Belgio riconosce come diritto nel caso di malattia senza scampo. In tempi di sentenze creative e di dignità umana rasa al suolo, l’assimilazione dell’ergastolano a un malato terminale non dev’essere sembrata raggelante ai giudici che hanno concesso la "soluzione finale" a Frank. Anziché prodigarsi per umanizzare la sua condizione, lo Stato ha scelto di tornare a uccidere un detenuto: l’ultima esecuzione capitale per crimini comuni nel Paese risale al 1863, c’è voluto un secolo e mezzo per ripercorrere la strada del patibolo e trovarsi con una siringa in mano per dar la morte a un uomo colpevole solo di essere disperato. E che sia lui a chiederlo rende solo più chiara la responsabilità di chi ne ha accolto la richiesta come fosse orientata a ottenere un qualunque beneficio carcerario. È l’esito dell’idea – che si fa strada anche in Italia – secondo la quale la morte sarebbe un diritto, del quale si fa domanda in carta da bollo e che lo Stato deve erogare, come fosse una prestazione sociale tra le altre, reso ormai miope dall’idea che chiunque è libero di scegliere per sé ciò che ritiene meglio. Fosse pure la morte. Li chiamano nuovi diritti, ma è semplicemente la resa vigliacca all’indifferenza e al cinismo da parte della collettività rappresentata dallo Stato e dalle sue articolazioni, in primis quelle giudiziarie. Se non c’è un soprassalto di consapevolezza, improbabile in un Paese che ha appena esteso l’eutanasia anche ai bambini, domenica prossima Frank si troverà steso su un lettino del carcere di Bruges, accanto a lui il funzionario incaricato di ucciderlo a norma di legge per garantirgli la fruizione di un diritto che gli spetta in quanto cittadino. Quando questa pratica accade in Stati dov’è chiamata col suo nome – pena di morte – la società civile, gli intellettuali, i mass media, i militanti dei diritti dell’uomo insorgono offesi. Per Frank, che ha chiesto di morire per sottrarsi all’ergastolo e a se stesso, è difficile immaginare una mobilitazione analoga, perché "può fare quello che vuole". Pare una pagina di Orwell, con le parole della "neolingua" svuotate del proprio significato naturale e rovesciate nel loro opposto. Svegliamoci, allora, prima di abituarci a questo degrado che umilia l’essere umano e offende la sua ragione.