Un ragazzo evacuato dalla zona di Donetsk - Reuters
L’apparenza, ma diciamo pure la realtà dei fatti, non lascia grande spazio all’ottimismo. La guerra Russia-Ucraina – oramai di questo si tratta, non più soltanto di un’invasione proditoriamente progettata da Mosca due anni e mezzo fa – va assumendo giorno dopo giorno i contorni di un conflitto definitivo che realisticamente potrebbe concludersi soltanto con la resa o la rinuncia di uno dei belligeranti. E sappiamo altrettanto bene che una potenza nucleare che dispone di riserve di centinaia di migliaia di soldati arruolabili e utilizzabili sul campo oltre che una provvista inesauribile di armamenti fornitigli da Paesi amici come l’Iran, la Corea del Nord e la Cina (ma non saremmo sorpresi di scoprire che altri fabbricanti di armi teoricamente allineati con il blocco occidentale sarebbero ben lieti di fornire sotto banco a Mosca un po’ dei loro succulenti prodotti) difficilmente potrebbe capitolare sul campo di battaglia.
Il che non ha impedito ai generali di Zelensky di attuare una controffensiva sul territorio russo arrivando a sfiorare Kursk, luogo sacro alla memoria ex sovietica della Grande Guerra Patriottica, perché è da lì, dalla memorabile battaglia vinta dall’Armata Rossa – come all'epoca avevano magistralmente raccontato due grandi inviati di guerra ucraini come Vasilij Grossman e Il’ja Ëhrenburg - che cominciò la svolta nella guerra e la sconfitta della Germania nazista.
La risposta di Vladimir Putin – peraltro meno massiccia di quanto si sarebbe potuto pensare, tanto da aver fatto arricciare il naso ai “falchi” dell’esercito e forse a qualcuno del cerchio magico del presidente, come il fidatissimo consigliere Nikolaj Patrušev – non si è fatta attendere. Da un paio di notti il cielo ucraino rosseggia di incendi, di droni e missili che lasciano tracce di fuoco come crudeli stelle filanti che si sono abbattute un po’ dovunque, da Zaporizhzhia a Kiev, a Sumy, Khmelnytsky, Mykolayiv, fino a Odessa, mentre prosegue la lenta ma sistematica avanzata delle truppe russe nel Donetsk. Anche Volodymyr Zelensky, a sua volta, ha reagito, mandando truppe a superare la linea di confine con la Russia nell’oblast di Belgorod, il territorio a Est della zona già occupata dalla controffensiva di Kiev.
La fotografia attuale corrisponde dunque a una pura logica di guerra. A cosa mirano i due belligeranti? Di Zelensky, lo si intuisce. Sferrando quelle offensive punta a ottenere dagli Stati Uniti l’eliminazione delle restrizioni sull’uso delle armi a lungo raggio, con le quali potrebbe colpire direttamente Mosca e altre città russe. Il che però sancirebbe con un’evidenza non più celabile il coinvolgimento della Nato nella guerra. Quanto a Putin, anche lui ha un obbiettivo di medio termine: prolungare il conflitto, attendere l’esito delle elezioni americane (anche se di Donald Trump e della sue smargiassate - «In ventiquattr’ore faccio finire la guerra fra Mosca e Kiev» - non si fida più di tanto), aspettare pazientemente che la spinta e le risorse belliche dell’Ucraina si esauriscano e che il generale inverno – non a caso i cacciabombardieri russi colpiscono di preferenza siti energetici, centrali elettriche e zone di stivaggio del combustibile da riscaldamento – faccia il suo compito quando si affaccerà il gelo. Realisticamente, come si diceva, non si vedono spiragli. Eppure…
Eppure qualcosa, una traccia tenue, sottile, un esile stelo che non è solo l’irragionevolezza della speranza s’intravede fra i fumi della guerra. E non è soltanto quel recentissimo scambio di prigionieri fra Mosca e Kiev – 115 a 115, una lex talionis alla rovescia – ma semmai quella dichiarata intenzione di entrambi i belligeranti di sedersi a un tavolo di trattative con l’ausilio della Cina «a condizione che l’altro sia in buona fede».
Ed è proprio quella frase, pronunciata a inizio estate da entrambi, gli ucraini per bocca del ministro degli Esteri Kuleba e la Russia attraverso il portavoce del Cremlino Peskov a reclamare con forza ciò che ancora non ha corpo né sostanza, ma il cui profilo tuttavia – su tutti, la voce di pace di papa Francesco già si staglia sui campi esausti di lutti e di rovine. La buona fede. Materia prima sempre più rara, ma insostituibile se si vuole arrivare a fermare l’inutile massacro cominciato con l’invasione russa il 24 febbraio del 2022.