Si sospetta la presenza di al-Qaeda dietro la spettacolare incursione di domenica al triplice confine tra Gaza, Israele ed Egitto, costata la vita a 15 uomini della Polizia di frontiera egiziana e conclusosi con il furto di un paio di blindati spintisi poi all’interno dello Stato ebraico, dove i missili di un jet di Tsahal hanno posto fine alla loro corsa e alla vita dei loro occupanti. Analogamente, si fanno sempre più circostanziate le ipotesi sulla presenza di miliziani qaedisti tra le fila della piccola "legione straniera" all’opera in Siria, composta da fedeli dell’islam accorsi per combattere a fianco dei fratelli sunniti contro i soldati di Assad. Anche durante la guerra civile in Libia, si ricorderà, erano girate con insistenza le voci su un ruolo qaedista tra le forze dell’opposizione, ipotesi poi fin qui smentite dall’evoluzione dei fatti nell’ex regno di Gheddafi. E in occasione del rapimento del carabiniere italiano in servizio presso l’ambasciata di Sanaa, conclusasi poi felicemente, la prima preoccupazione delle autorità italiane era relativa proprio al possibile coinvolgimento dell’organizzazione fondata da Benladen.La domanda che circola con sempre maggiore preoccupazione non solo a Washington e nelle altre capitali occidentali, ma anche al Cairo, a Teheran e persino a Riyad è quanto il decorso delle primavere arabe, il loro procedere non esattamente trionfale verso un auspicabile esito democratico, possa ridare ad al-Qaeda quello spazio che proprio le rivoluzioni le avevano invece sottratto. Giova infatti ricordare come fu proprio il carattere di massa e acefalo di quelle rivoluzioni spontanee a emarginare il ruolo del terrorismo jiahdista dal mondo arabo, dopo che per decenni esso aveva coinciso con la forma più spettacolare di lotta politica. Le centinaia di migliaia di persone che occupavano piazza Tahrir al Cairo o che marciavano a viso scoperto per le strade di Tunisi facevano letteralmente scomparire i terroristi qaedisti, con i loro sinistri giubbotti esplosivi e i loro tetri passamontagna. Fu soprattutto il successo arriso alla piazza, capace di far cadere dittatori disposti a tutto pur di restare in sella, a screditare e privare di consenso l’azione cospiratrice.È lecito allora chiedersi se la farraginosità dell’azione costituente, le difficoltà della seconda fase delle rivoluzioni – con il suo inevitabile carico di delusioni e ambizioni frustrate, di aspettative tradite o di illusioni che semplicemente svaniscono al contatto con la dura realtà – non rischi di riaprire i giochi. Un dubbio che si fa maggiore proprio guardando agli eventi siriani, poiché è ovvio che scontri militari sempre più sanguinosi e prolungati finiscono col riportare in auge non solo il "discorso delle armi", ma anche la logica ancor più cruda dello stragismo, campo in cui evidentemente al-Qaeda ha pochi rivali. A differenza di quanto avvenuto in Libia, poi, la guerra civile siriana sta sempre più assumendo i contorni di un conflitto inter-religioso, tra sciiti e sunniti. Ed è proprio questo il punto di attacco per una possibile penetrazione qaedista. Difficile infatti non osservare le profonde analogie (sia pure a proporzioni invertite) tra le società irachena e siriana, entrambe frammentate religiosamente, dove Saddam Hussein governava la maggioranza sciita esattamente con gli stessi metodi con cui gli Assad governano la maggioranza sunnita.Resta l’interrogativo di dove i seguaci e gli emuli di Benladen trovino armi e denaro per la loro lotta. Ma qui la risposta è fin troppo facile. La rotta tra la Penisola araba e il Pakistan resta ancora molto battuta per i
fundraiser di al-Qaeda e in troppi, a Islamabad come a Ryiad continuano a giocare una partita su più tavoli: non necessariamente con la complicità dei loro governi, ma ben difficilmente senza la distratta condiscendenza di componenti importanti degli apparati di sicurezza.