In Italia vivono almeno 5,5 milioni d’immigrati, forse 6, ma la loro visibilità nello scenario politico è ridotta quasi sempre alle rappresentazioni che altri danno di loro: principalmente ostili e tese a enfatizzare i risvolti negativi della loro presenza sociale, spesso presunti o ingigantiti. Privi del diritto di voto, hanno poca voce, almeno fino a quando non riescono a superare la corsa a ostacoli del percorso di naturalizzazione diventato, dopo i decreti (in)sicurezza congegnati da Matteo Salvini, il più lungo e complicato dell’Europa occidentale. Anche quando si tratta di difendere i loro diritti, di presentarne le istanze, di richiedere provvedimenti a loro favore, come nel caso della misura di emersione attualmente in corso, a parlare a nome loro sono soprattutto soggetti e istituzioni italiane. Tra queste, la Chiesa cattolica svolge una funzione di primo piano. Alcune recenti iniziative appaiono foriere d’innovazione in questo quadro di scarso protagonismo politico, malgrado le limitazioni provocate dalle misure di distanziamento fisico.
Mi riferisco in modo particolare agli 'Stati popolari' tenuti a Roma, nella storica piazza San Giovanni, domenica 5 luglio, in voluta contrapposizione con gli 'Stati generali' convocati dal premier Conte. Non era una manifestazione degli immigrati, giacché sono convenuti anche italiani, lavoratori precari, di aziende in crisi e a rischio di disoccupazione. Tuttavia, i temi legati all’immigrazione hanno occupato molto spazio, in un quadro di rivendicazioni dei diritti degli 'invisibili': i lavoratori che hanno consentito la sopravvivenza di tutti durante il blocco dovuto alla pandemia.
L’abolizione, appunto, dei decreti Salvini, il rilascio di un 'permesso di soggiorno per emergenza sanitaria' convertibile in permesso di lavoro e la riforma della legge sulla cittadinanza figurano tra le sei proposte del Manifesto presentato a piazza San Giovanni. Tra le voci della piazza, hanno spiccato inoltre quelle di Black lives matter Roma e di Italiani senza cittadinanza. Immigrati e italiani con un retroterra d’immigrazione hanno cominciato, sulla scia degli esempi internazionali, a sensibilizzare la nostra società sulla questione del razzismo. Giovani di seconda generazione hanno preso la parola per ricordare che con il primo decreto sicurezza è stato raddoppiato di colpo, da due a quattro anni, il tempo che lo Stato italiano si concede per valutare le richieste di cittadinanza, portando la durata effettiva della procedura ad almeno 14 anni. I requisiti di reddito, di questi tempi soprattutto, rischiano poi di complicare ancora di più il percorso di naturalizzazione.
Al di là dei contenuti, la manifestazione romana, come altre andate in scena pacificamente in varie piazze italiane nelle ultime settimane (a Milano il 30 giugno ha dimostrato davanti a Palazzo Marino la Rete NO cpr - Mai più lager per chiedere di allargare le maglie del decreto di emersione) assumono un significato più ampio. Indicano che le persone escluse dalla cittadinanza formale e dal diritto di voto possono tuttavia conquistare un diritto di parola, partecipare al dibattito democratico, esercitare forme di cittadinanza 'dal basso'. Il loro protagonismo trasforma le battaglie 'per loro' in battaglie 'con loro', ravvivando il senso della partecipazione politica e della stessa democrazia. Il ruolo che gli attori italiani della solidarietà hanno svolto in questi anni non verrà certo ridimensionato, ma potrà irrobustirsi grazie al concorso di tanti nuovi cittadini, di fatto se non ancora di diritto.