E non è quello dell’uscita da una guerra. Ma da un sisma. Perché la pandemia è stata un sisma sociale. E dopo un sisma, oltre ad affrontare i lutti e i danni subiti, la prima necessità è ricostruire in modo antisismico. Perché non si ripeta il dramma. Inquadrare così la pandemia, ci aiuta a pensare 'come' ricostruire l’Italia per evitare, in caso di crisi, nuove vittime e nuove distruzioni di ricchezza sociale. Una probabilità evidente degli scenari delle società globalizzate. In concreto, questo cosa vuol dire? Che la normalità, la norma delle interazioni sociali non può essere quella di prima.
E nei limiti del possibile deve diventare abituale la logica assunta in via emergenziale del distanziamento fisico. Le cronache ci dicono che tanti di noi fanno fatica anche solo a concepirlo, ma dobbiamo riprogettare le interazioni sociali nella maniera più idonea a evitare, per quanto possibile, la necessità di un lockdown generalizzato al prossimo evento pandemico. Perciò la distanza dell’interazione tra di noi (commerciale, lavorativa, formativa, religiosa…) dovrà essere di prassi la più vicina alla distanza di sicurezza pandemica che abbiamo sperimentato.
E questo non per un’assurda costrizione, ma per una scelta che risponda alla logica naturale dell’interazione sociale, se stiamo alla prossemica, la scienza che studia le distanze sociali. Essa ci dice che la distanza 'intima' è valutabile in 0-45 cm; la distanza personale (tra amici) in 45-120 cm; la 'distanza sociale' (il rapporto tra conoscenti, quello insegnante-allievo o quello negoziante-cliente) in 1,2-3,5 metri; e infine la 'distanza pubblica' in oltre i 3,5 metri.
Se ci si riflette, si vedrà che chiedere 2 metri di distanza tra tavoli in un ristorante, risponde al comfort naturale minimo del servizio, prima ancora di essere una misura di sicurezza sanitaria. Come sa chiunque entri in un buon ristorante, che non sia una mensa costipata. E così sulle spiagge, nelle classi, in tante altre attività. Paradossalmente la pandemia ci ha spinto a ritornare per motivi sanitari alle distanze sociali naturali, alle 'zone interpersonali', cioè, vissute come quelle effettivamente confortevoli.
Ma non ci sarebbe bisogno di scomodare la prossemica per sapere che ogni situazione 'affollata' è un fastidio, e se si può la eviteremmo volentieri. Non sarebbe affatto sbagliato allora, che molte delle norme di distanziamento fisico imposte dopo il lockdown ai locali commerciali e nei servizi, anche quelli alla persona, diventassero standard per l’esercizio dell’attività stessa. Attività la cui reddittività non può dipendere, in assenza di quegli standard, dal rischio sociale fatto correre alla comunità. Perché se la reddittività di un’attività deve dipendere dall’affollamento, dall’effetto-pollaio, quella redditività è già in sé socialmente malata, e magari avvantaggia il singolo operatore, ma mette a repentaglio la ricchezza sociale nel suo complesso. E alla fine dello stesso operatore che così si sia economicamente avvantaggiato.
Non c’è niente di socialmente insostenibile se la stessa utenza sociale, anziché da un locale affollato venga soddisfatta da due locali. Anzi questo vuol dire che ci sarebbero due imprese e non una, e quindi una più diffusa possibilità di fare impresa. E impresa meno esposta alla logica del lockdown, e quindi più sicura. Se, in aggiunta si rivedesse la liberalizzazione selvaggia delle licenze per evitare di costruire, ad esempio, 'distretti di movida' sul territorio, e se in ambito scolastico si programmasse di raggiungere in alcuni anni standard di classi di 15/18 studenti, in aule adeguate – ecco noi avremmo fatto alcuni passi avanti per non dover chiudere in modo draconiano la nostra società alle prossime pandemie. A questa ricostruzione socialmente antisismica dopo pandemia, dovrebbe inoltre accompagnarsi l’avere nel cassetto procedure di gestione dell’emergenza sotto il profilo sia sanitario sia sociale ed economico.
Procedure che, alla bisogna, possano essere attivate dallo Stato e dalle istituzioni locali 'in automatico', e non decretate d’urgenza come purtroppo è stato fin qui necessario. Ricostruire l’Italia significa metterla in condizione di non cadere più nel baratro in cui ci ha portato il Covid-19. Che cioè per quanto possibile ci possa bastare una mascherina e lavarci le mani per andare al lavoro, al ristorante, a comprare qualcosa in un negozio, ad andare a scuola.
Filosofo, Università Federico II Napoli