Una denuncia arriva dal-l’Inghilterra: secondo l’organizzazione Mencap, un’importante associazione benefica sostenuta dalla famiglia reale e impegnata a tutela della disabilità intellettiva, starebbe emergendo la pratica di non rianimare i soggetti con disabilità mentale affetti da Covid. Questo allarme fa seguito a quello lanciato dalla Care Quality Commission inglese, che riportava decisioni o proposte simili per gli ospiti di alcune case di riposo e per le persone con disabilità intellettiva, cosa che avrebbe provocato morti evitabili. Un fatto ancor più grave nel momento in cui le stesse organizzazioni stanno cercando di far riconoscere le persone con disabilità intellettiva tra quelle che devono avere priorità nella vaccinazione anti-Covid: infatti il 65% delle morti di persone con disabilità intellettiva nelle ultime cinque settimane della pandemia sarebbero dovute al contagio, mentre dai dati del Ministero della Salute inglese appare che questi soggetti quando si tratta di giovani patiscono un rischio di morire di Covid maggiore rispetto ai coetanei della popolazione generale.
Come se non bastasse, durante la pandemia le persone più deboli hanno visto diminuire le prestazioni sanitarie ambulatoriali o chirurgiche come anche gli accessi domiciliari, e hanno risentito dell’isolamento e del confinamento che ha creato seri problemi psicologici anche alle persone senza disabilità. Ma la salute allora è solo un privilegio, e in questo periodo esiste solo un tipo di malati da salvaguardare e un tipo di pericolo da prevenire?
È possibile che si pensi solo al Covid perché colpisce anche i supposti “normali”, e che le prestazioni sanitarie generali e in particolare per le categorie fragili ne restino compromesse? Ed esistono vite che appartengono a categorie che meritano di essere messe in secondo piano? In un editoriale della rivista “Lancet”, qualche tempo fa, le persone con disabilità mentale venivano definite come «invisibili al Sistema sanitario nazionale» britannico per la loro fragilità, difficoltà di gestione e ovviamente per la scarsa capacità dei singoli di organizzarsi per protestare. Non è un problema solo inglese la tendenza a contrapporre la società dei sani e produttivi a quella dei “meno adatti”, di cui non si parla nei talk show, nelle serie tv, nei salotti mediatici in cui prevale il cliché del soggetto vincente e soddisfatto, o almeno capace di determinarsi, mentre il resto finisce sotto le forbici di censura mirata o di fatto. Di qui a pensare a una differenza di diritti il passo è breve.
Eppure sia in Inghilterra che in altri Paesi, tra cui l’Italia, i responsabili della sanità sono stati chiari: le cure non devono essere fornite o negate sulla base dell’appartenenza a una “categoria” quale quella degli anziani o dei disabili, ma esclusivamente sulla possibilità del singolo soggetto di trarne giovamento. Tuttavia già nel 2009 Mencap riportava al Parlamento inglese vari casi di morte evitabile. Il rischio di decesso per le persone con disabilità intellettiva era legato tra l’altro al fatto che medici e infermieri parevano divenuti meno capaci di interpretare segni e sintomi delle persone che non sanno esprimersi correttamente con le parole o che hanno comportamenti apparentemente irrazionali o inspiegabili, tanto da sottovalutare, trascurare o mal interpretare sintomi che in una persona “normale” avrebbero portato a una pronta diagnosi.
Che questo non avvenga in Italia è un imperativo per la medicina, un forte richiamo alla politica per mettere sempre più al centro le persone fragili, e al mondo della cultura per dare dignità e visibilità a chi per la vulgata di moda è diventato invisibile.