E l’idea stessa della guerra giusta si ritrovò infine senza più radici
mercoledì 12 aprile 2023

Caro direttore,

sessant’anni fa, l’11 aprile 1963 Giovanni XXIII promulgava l’enciclica Pacem in Terris. Ci sono molte analogie tra la situazione che stiamo vivendo e la condizione storica che ha spinto il Papa bergamasco a dire la sua. Venti gelidi di guerra soffiano ancora nel mondo. Crescono il dolore e la paura, aumenta il numero dei profughi e degli sfollati, col rischio di abituarsi alla guerra. Regna l’incertezza, ma non è il caso di rassegnarsi al peggio.

Occorre aprire i cuori alla speranza. Oggi come allora il mondo è sull’orlo del precipizio di un conflitto nucleare. Siamo nella tentazione di usare armi in grado di distruggere popoli e territori. Non è mai tardi per sognare la pace. La Pacem in Terris mantiene la sua giovinezza perché detta una grammatica della pace. Giovanni XXIII ha compreso uno dei segni dei tempi che avrebbe caratterizzato i rapporti tra i popoli: l’interdipendenza della famiglia umana. E quel testo è ancora bussola per il tempo che viviamo perché offre indicazioni attuali su quattro livelli: relazionale, istituzionale, economico e sociale. Innanzi tutto, con la guerra i rapporti sociali vengono regolati esclusivamente «per mezzo della forza» (PT 3).

La corsa agli armamenti come prima risposta mostra mediocrità umana e mancanza di creatività. «Le controversie fra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato» (PT 67). I rapporti di forza accrescono la cultura del nemico e contrastano la cultura della cura. Ecco una grammatica del nostro tempo: dialogo e negoziato invece di violenza e armi. A livello istituzionale, Giovanni XXIII offre l’indicazione della gradualità come legge della vita civile: «Nelle istituzioni umane non si riesce a innovare verso il meglio che agendo dal di dentro di esse gradualmente » (PT 86). Alla logica che vuole sostituire le istituzioni con altre, senza cambiare la mentalità delle persone, occorre privilegiare quella dell’abitarle facendo maturare conversioni e trasformazioni. In questi mesi invochiamo un’autorità internazionale al di sopra delle parti, capace di intervenire a difesa delle vittime innocenti e con la credibilità di far sedere i contendenti al tavolo delle trattative. Come invocava il santo pontefice: «Auspichiamo pertanto che l’Onu - nelle strutture e nei mezzi - si adegui sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti» (PT 75). Perché l’assenza delle Nazioni Unite è un lusso che non ci possiamo permettere e va a scapito dei più poveri. A livello economico l’enciclica denuncia gli investimenti in «armamenti giganteschi» (PT 59). Ciò ha portato gli uomini a vivere «sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi in ogni istante con una travolgenza inimmaginabile» (PT 60).

A forza di produrre armi ci mettiamo nelle condizioni di doverle usare. Giovanni XXIII propone un «disarmo integrale» (PT 61) che coinvolga innanzitutto gli spiriti per dissolvere «la psicosi bellica». La pace conosce come unica condizione il disarmo dei cuori e si allarga alla solidarietà a tutti i livelli: personale, familiare, sociale. Da ultimo, a livello sociale la Pacem in Terris invita a vigilare su noi stessi, perché la giustizia non conosce «una soluzione definitiva» (PT 81). La pace non è raggiunta una volta per tutte, ma si costruisce giorno per giorno. Faticosamente e pazientemente. Non deve mai venire meno la speranza che persone portatrici di opinioni erronee, protagonisti di azioni militari ingiuste, possano ricredersi e trasformarsi in artigiani di pace. Nella storia è accaduto. Il merito dell’enciclica è quello di aver introdotto definitivamente nel magistero il superamento della teoria della “guerra giusta”, tanto che «riesce quasi impossibile pensare ( alienum est a ratione) che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia » (PT 67). Si è aperta la stagione delle grandi scelte per la famiglia umana e per la Chiesa stessa. Si tratta, in sostanza, di abolire la guerra: non può essere invocata come mezzo di soluzione dei conflitti. Lascia solo macerie e devastazioni, inimicizia e sete di vendetta.

Come ha ricordato papa Francesco nell’Angelus del 27 marzo 2022 riferendosi alla guerra in Ucraina: «Dobbiamo convertire lo sdegno di oggi nell’impegno di domani. (…) Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia». È urgente creare occasioni di incontro e di pacificazione, perché «è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!» (Fratelli tutti 258).

Per una provvidenziale coincidenza di date, il 12 aprile 1959 moriva don Primo Mazzolari, profeta della pace, autore del celebre Tu non uccidere, un precursore delle idee di Pacem in Terris. Egli era convinto che la pace conosce la fecondità divina della croce. Occorre avere il coraggio di domandarla per tutti, anche per chi non la merita. Non possiamo approvare l’assuefazione all’uso delle armi che fomenta i conflitti. «Chi accetta la necessità della guerra – scriveva don Primo Mazzolari – si schioda dalla croce non potendone sopportare l’impotenza nel fare la giustizia». I segni dei tempi invitano al discernimento. Il Vangelo si serve della metafora della guerra tra eserciti per invitare a fare i conti con le proprie forze: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace» (Lc 14, 31-32). La guerra contemporanea è così distruttiva che conviene investire in messaggeri di pace. Infatti, con la guerra tutto è perduto. Con la pace tutto è guadagnato.

Sacerdote, direttore Ufficio Cei Problemi sociali e del lavoro

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