Tigrai e Myanmar, due fronti lontani di guerre combattute anche con la fame. Nell’era del Covid che ha distratto l’opinione pubblica, un’antica strategia militare ha provocato carestie per piegare le popolazioni civili e, oggi, nella disattenzione di troppi è la Chiesa ad alzare più forte la voce per ricordare il dramma dei deboli, delle vittime. In Africa, nella regione etiope semiautonoma del Tigrai, il conflitto è stato scatenato (e subito oscurato) a novembre dal governo centrale guidato dal Nobel per la pace 2019 Abiy Ahmed per spodestare i governanti locali del Tplf, fronte popolare di liberazione del Tigrai. I leader del Tplf sono arcinemici di Abiy – del quale sono stati i predecessori guidando il gigante africano per un quarto di secolo circa con pugno di ferro e parecchia corruzione – e del suo più stretto alleato, il dittatore eritreo Isayas Afewerki, che hanno combattuto per due anni dal 1998 al 2000 e il cui Paese hanno contribuito a tenere 'congelato' in una forma di guerra non dichiarata fino al 2018.
Le truppe di Asmara sono state accusate da Organizzazioni internazionali e Ong di aver commesso in Tigrai stragi di civili, stupri di massa persino di bambine, rimpatri forzati di rifugiati eritrei dai campi profughi, uccisioni di religiosi e abusi su suore, saccheggi e distruzioni del prezioso patrimonio artistico e culturale del Tigrai. Crimini di guerra che andranno investigati in modo indipendente. I tigrini pagano le colpe del Tplf, insomma e davanti alle esplicite richieste di ritiro dall’Etiopia dei militari asmarini da parte di Usa e Ue, Abiy, dopo molte smentite, ha prima ammesso la presenza eritrea a febbraio, poi ne ha promesso il ritiro a marzo. Sono ancora lì, e l’Etiopia, che ha definito la guerra un’«operazione di polizia interna», ha rifiutato ogni mediazione. Il ministro degli Esteri di Addis Abeba ha diffuso una dichiarazione in cui parla di tonnellate di aiuti distribuiti e dichiara gesto non amichevole metterlo in dubbio. Dicono il contrario denunce e documentazioni delle agenzie umanitarie Onu, delle Ong impegnate sul campo come Msf, di pochi media internazionali.
La carestia provocata da mano umana ha già affamato 350mila civili, che entro il prossimo mese saranno 400mila se non si interviene. Il 90% dei raccolti è stato distrutto e non viene lasciato libero accesso, per ragioni di sicurezza vere o addotte, agli aiuti umanitari. I più fragili sono i bambini e sempre il Palazzo di vetro ha reso noto che 30mila minori rischiano la morte per fame. Un video che gira in rete, ripreso da media occidentali, racconta la vicenda emblematica di Adan Muez, 14enne ridotto a scheletro ricoverato in ospedale a marzo dopo 5 mesi trascorsi in una caverna per salvarsi la pelle. Una volta era forte come un leone, oggi pesa un terzo di quel che dovrebbe.
Domenica la voce – neutrale, è bene sottolinearlo in questo conflitto incendiato da propaganda e odio etnico – di papa Francesco in piazza San Pietro ha spiazzato tutti dichiarando, con coraggio e forza, «particolare vicinanza» alla popolazione tigrina colpita da una grave crisi umanitaria che espone i più poveri alla carestia. «C’è oggi la carestia, c’è la fame!». ha scandito Francesco, mettendosi semplicemente a fianco dei più deboli, come Adan. Il Papa ha chiesto di pregare insieme affinché «cessino immediatamente le violenze, sia garantita a tutti l’assisten- za alimentare e sanitaria e si ripristini al più presto l’armonia sociale». Preghiera, arma dei disarmati .
E proprio una suora inginocchiata in preghiera davanti ai militari che stanno per sparare ai manifestanti è divenuta il simbolo del conflitto che in Asia dilania il Myanmar dove generali golpisti non hanno voluto riconoscere la netta vittoria di Aung San Suu Kii alle elezioni e l’hanno rovesciata. L’esercito sta rastrellando e distruggendo le derrate alimentari destinate a una crescente popolazione di sfollati e i vescovi birmani in una lettera, diffusa nei giorni scorsi hanno chiesto l’apertura di 'corridoi umanitari' per decine di migliaia di persone – soprattutto anziani e bambini –, che stanno morendo di fame nella giungla dopo essere state costrette a fuggire dalle loro case.
Un mese fa il Papa ha portato sull’altare «le sofferenze» del popolo birmano e ha pregato Dio «perché converta i cuori di tutti alla pace», ricordando che «il Si- gnore sempre ascolta il grido del suo popolo ». In attesa che i governi e l’Onu si muovano, in questo tempo di pandemia, che spinge a pensare soprattutto alla propria 'liberazione' dalle angustie, occorre combattere dal basso anche il virus dell’indifferenza. Ma è il momento di seguire l’esempio di Francesco – con la preghiera cristiana, il raccoglimento laico e l’impegno umano – per far memoria dei morti e far sentire sui tetti la voce di chi non si rassegna a igiustizia, guerra e fame.