Le speranze sono ormai tramontate. I rottami individuati in fondo al mare sono quelli del Titan. Il senso di sconfitta è enorme, direttamente proporzionale alle impressionanti forze messe in campo per le ricerche del piccolo sommergibile: boe acustiche per captare eventuali rumori, sottomarini e navi arrivati dall’Europa e dotati di robot in grado di immergersi a profondità estreme, numerose imbarcazioni della Guardia costiera statunitense, perfino tre aerei per pattugliare il braccio di mare… Una corsa contro il tempo senza limiti di budget e purtroppo rivelatasi inutile nel salvare cinque vite ore sperse in fondo all’Atlantico, forse naufraghe per l’eternità. Shahzada, uomo d’affari inglese di origini pachistane e il figlio 19enne Suleman; il miliardario inglese Hamish; lo studioso francese Paul-Henri; e infine Stockton, l’organizzatore della spedizione sulle tracce del Titanic. Ciascuno di loro ha un nome, un volto, una storia. Non ha goduto dello stesso privilegio la gran parte delle vittime di un altro naufragio, accaduto quasi in contemporanea con quello del piccolo Titan. Fin dal numero, ancora all’ingrosso: oltre agli 82 morti accertati e ai 104 salvati, si stimano più di 600 persone disperse. I corpi di diverse centinaia di loro, donne e bambini, potrebbero essere ancora intrappolati nella stiva del peschereccio colato a picco al largo delle coste greche nella notte tra il 15 e il 16 giugno. Se il numero delle vittime è ancora incerto e i loro nomi non saranno mai conosciuti, sappiamo però che alcuni si sono imbarcati per fame, altri per persecuzione, altri perché qualcosa – una speranza – e qualcuno – un familiare - li attendeva sull’altra sponda del Mediterraneo.
Non per un’avventura, non per una esplorazione, ma per fame, per speranza. Per futuro.
E però, che destino diverso, da questa parte del mondo. Naufraghi restati senza aiuti, o perfino vittime, secondo le testimonianze dei sopravvissuti raccolte anche da Avvenire, di soccorsi tardivi, inadeguati, insufficienti, perfino maldestri. Naufraghi per la cui salvezza nessuno ha fatto il conto alla rovescia: quanto tempo rimane prima che lo scafo si ribalti? Quanto ossigeno – anche qui, l’ossigeno! – resta prima che nella stiva bambini e donne inizino a soffocare? Quanto tempo possono stare in mare prima di arrendersi al freddo e al buio coloro che si sono buttati giù dalla barca?
Il contrasto è straziante, a pensarci fa male. Nell’Atlantico un copione da disaster movie sta tenendo da giorni l’opinione pubblica mondiale con il fiato sospeso: cinque agiati occidentali alla ricerca dell’avventura estrema a bordo di un piccolo cilindro a tenuta stagna, la scomparsa dai radar, i rumori captati dagli abissi come disperati Sos, e poi la corsa contro il tempo, la mission impossible dei soccorsi, infine l’individuazione dei rottami. È tutto come un film, peraltro già vissuto tante volte in situazioni anche molto differenti: ricordiamo l’angoscia suscitata dal dramma dei 118 uomini intrappolati nel sommergibile della Marina russa Kursk nel 2000, e, di contro, l’entusiasmo globale per il salvataggio di 12 giovani thailandesi sepolti per 15 giorni in una grotta nel 2018. Angoscia ed entusiasmo legittimi e condivisibili: ogni vita umana è preziosa, salvarne anche una sola vale qualsiasi sforzo e la perdita anche di una sola causa dolore. Ma allora, perché questo tiepido sdegno per l’ennesima strage nel Mediterraneo? Perché questa labile partecipazione a un lutto che dovrebbe essere universale? Perché questa corta memoria per una carneficina che – lo dirà con certezza l’inchiesta – forse è stata causata anche da negligenza, se non addirittura dalla volontà di spingere lontano, di non vedere, di scaricare la responsabilità ad altri? Il mondo trattiene il fiato per cinque uomini naufraghi in fondo all’Oceano Atlantico e si gira distratto dall’altra parte di fronte al Mediterraneo diventato un cimitero. Forse perché, come si è letto sui social, i morti davanti alla Grecia, così come quelli davanti alla Libia, alla Tunisia, a Lampedusa, alla Calabria, non erano naufraghi. Erano poveri.