La gelata, nel clima già quasi primaverile di questi giorni, l’ha portata l’Istat. Giovedì con i dati negativi sull’occupazione e ieri con la stima preliminare del Pil nell’ultimo trimestre del 2019. Due colpi che possono, se non mandare al tappeto, quantomeno stordire un Paese. E che chiedono perciò una pronta reazione.
Alla fine dello scorso anno, infatti, gli occupati sono calati d’un botto di 75mila unità, annullando oltre un terzo dell’incremento accumulato nel corso del 2019. Certo, i dati mensili sono sempre da prendere con le molle e come non si poteva gridare al miracolo per i progressi dei mesi scorsi – quando si è raggiunto il record di 23 milioni e 451mila occupati – così oggi rischia di essere esagerato disperarsi. Tuttavia, la perdita di occupati nel dicembre scorso ha riguardato, oltre agli autonomi, i contratti a tempo indeterminato. Quelli di buona qualità.
Il dato negativo del Pil – calato addirittura dello 0,3% nell’ultimo trimestre 2019 – testimonia d’altro canto che l’attività delle imprese, la manifattura in particolare, si era già fermata nell’ultima parte dell’anno appena trascorso. E sul 2020 si proietta l’ombra sinistra di un ritorno in recessione con un dato acquisito per il Pil di -0,2%. Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, si è detto fiducioso in un rimbalzo futuro. E certo l’ottimismo aiuta. Tuttavia, non basta. La produzione industriale in netto calo; l’incancrenirsi di singole crisi aziendali che non trovano soluzione se non in fantomatici salvataggi di Stato; l’export che rallenta dicono che il sistema-Italia sta degradando dalla manifattura hi-tech verso i servizi a basso valore aggiunto.
È un lento declino le cui radici affondano molto indietro nel tempo. Sugli ultimi mesi del 2019, però, si sono certamente scaricati, fra l’altro, gli azzardi del Conte I, l’incertezza politica estiva, l’instabilità del Conte II e la scarsa preparazione di entrambi i governi. Così come su questo inizio del 2020 peseranno, oltre alle difficoltà del quadro internazionale, le incertezze per l’esito dello scontro elettorale in Emilia Romagna. Se consideriamo che quest’anno si andrà al voto in altre 6 Regioni, un clima da perenne (ed estrema) campagna elettorale trasformerebbe in certezza il rischio recessione.
Occorre dunque ridare il giusto peso ai diversi eventi e concentrare l’azione politica su alcune riforme essenziali da progettare e concludere in vista della prossima Legge di bilancio. La prima riguarda il fisco. La semplificazione e riduzione dell’Irpef assieme al riordino dell’Iva rappresentano indubbiamente la chiave per dare una spinta al mercato interno e accrescere l’equità del sistema. La seconda, in parte collegata, è affrontare l’altra fondamentale crisi – quella demografica – assicurando un reale sostegno alla natalità con un assegno universale e una tassazione finalmente amica della famiglia.
La terza riguarda il lavoro e le pensioni. Per queste ultime l’obiettivo dev’essere un nuovo sistema previdenziale basato su tre criteri essenziali: flessibilità, equità ma soprattutto sostenibilità economica. Quanto al lavoro, inutile riaprire la questione dell’articolo 18, fondamentale invece sviluppare le politiche attive e portare a compimento la riforma del Terzo settore. L’ultimo impegno, ma non per importanza, concerne la transizione ambientale. Sfruttando la leva del Green new deal europeo, premiando la trasformazione ecologica delle produzioni industriali e progettando interventi di salvaguardia del territorio è possibile innescare il circolo virtuoso di un nuovo sviluppo sostenibile. In grado di generare Pil e posti di lavoro di qualità.
Sono obiettivi non impossibili da realizzare se – anziché sui rapporti di forza fra i partiti – ci si concentrerà finalmente su ciò di cui il Paese ha davvero bisogno. Solo così, dopo la gelata, può fiorire la primavera.