Tra Perugia e Assisi, domenica 24 aprile, la folla era a perdita d’occhio. Chi ci è stato lo sa. E sa che le bandiere della pace sventolavano bellissime tra le distese verdi che costeggiavano la strada. Eppure a nessuno di coloro che camminavano è venuto in mente di fermarsi a contare le persone, esercizio al quale si sono dedicati altri. A molti di quegli uomini e di quelle donne, certo a chi scrive, risuonava quasi inevitabilmente in testa la domanda-provocazione che Marco Tarquinio, il direttore di 'Avvenire', ha fatto risuonare più volte in queste settimane: se fossimo stati in quel momento, in 5 milioni uniti a marciare, avremmo avuto la forza di per fermare la guerra in atto? La risposta è no.
Qui, no. Anche se domenica fossimo stati in 5 milioni non avremmo potuto fermare la guerra come chiedevamo con forza, con canti, striscioni, inni, preghiere. Cosa si sarebbe mancato? Ci sarebbe mancato di essere lì, in Ucraina. Sentiamo tutti la distanza fisica dal conflitto in corso.
Siamo a due giorni di auto da Kiev e nel cuore dei nonviolenti trabocca da settimane quel desiderio di presenza 'corposa' che portò san Francesco a incontrare un sultano musulmano in terre lontane e nel pieno di un duro scontro militare e religioso. Preme quella stessa pulsione di pace che spinse Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, ma senza potere reale apparente sulla questione, a incontrare Ho Chi Min ad Hanoi, nel pieno della guerra del Vietnam. Si fa sentire il desiderio di una presenza fisica nel luogo dello scontro e della sofferenza, il desiderio del corpo posto di fronte alla guerra in segno di pace. È questo che agita e inquieta i nonviolenti che ascoltano, da lontano, il tuono di bombe che qui non colpiscono.
Ed è proprio Aldo Capitini, il fondatore della PerugiAssisi, a spiegare questa chiamata interiore in uno dei suoi versi: «Ad un tratto il presente rivela / che porta una realtà superiore all’attesa». La chiamata al 'presente' è una chiamata a 'esserci' non più solo con la parola e con l’empatia, ma con il proprio corpo che si fa potente leva di trasformazione del reale.
Ma non il corpo di uno, il corpo di molti, che diventa «appello al mondo per una grande mobilitazione dell’unità-amore, con l’apertura alla trasformazione della realtà stessa», spiegava – e spiega ancora – Capitini. Domenica abbiamo marciato mentre Joe Biden prometteva armi nuove e più potenti agli ucraini e mentre l’esercito di Vladimir Putin compiva nuovi massacri, eppure noi siamo sembrati più forti di queste notizie funeste.
Abbiamo marciato con il sole che ci ha accompagnato per tutto il tragitto e siamo stati colpiti sul finire da una pioggia torrenziale, quando la stanchezza cominciava a farsi sentire. Ora abbiamo smaltito la fatica, ma ci resta la consapevolezza della sfida ancora urgente che ci sta davanti: sappiamo che 'dobbiamo fare di più'. Dobbiamo prendere forza pacifica dal sole e dalla pioggia che ci hanno nutrito e messo alla prova per rimetterci in cammino verso Kiev. È lì che la Marcia deve continuare, è lì che una miriade di corpi «disarmati eppure resistenti» – come li ha definiti il direttore di questo giornale – può dire una parola nuova in un’Europa che, ancora oggi, pare afona, che cerca la pace e si mostra impotente a realizzarla.
Di fronte allo spettro di una probabile guerra nucleare dobbiamo far sentire l’«arma più forte del mondo» (Ghandi): quella di milioni di persone unite in modo nonviolento sin dentro i luoghi dove il corpo degli uomini, delle donne e dei bambini soffre. Per tanti la PerugiAssisi non si è conclusa per caso con la Messa nella Basilica inferiore di Assisi, ascoltando il Vangelo di Giovanni, là dove Gesù chiede con insistenza a Tommaso: tocca le mie piaghe! Perché non ci può essere trasformazione della realtà senza 'entrare nelle ferite', non ci può essere una nuova civiltà europea, una fede europea, solo nelle ragioni pratiche della guerra e, persino, della pace.
La pace non ha solo ragioni pratiche. Eppure il corpo di tanti che non si arrendono alla guerra e alle sue logiche si è materializzato tra Perugia e Assisi e può rimettersi in cammino, unito al corpo dei tanti nonviolenti ucraini, donne e uomini che il mondo non vede e non considera, ma che ogni giorno testimoniano strenua resistenza agli invasori e all’ingiustizia feroce della guerra.