Dopo la tragedia di Genova, come prevedibile, è partito nell’agone politico e nell’opinione pubblica italiana il dibattito sulla privatizzazione di Autostrade. La funzionalità dell’infrastruttura stradale è un bene pubblico si dice. Chi più dello Stato può garantire che la sua gestione e ammodernamento sia realizzata secondo i criteri del bene comune? La questione è in realtà molto meno semplice di quanto possa apparire.
La storia economia e politica del nostro Paese, ma non solo, insegna che tra l’orizzonte ideale dichiarato di un’amministrazione pubblica e la rotta effettivamente perseguita esistono divergenze non da poco. La storia delle partecipazioni statali italiane è piena di straordinari imprese e risultati, ma anche di tangenti, corruzione e inefficienze. La tentazione della politica di usare un suo maggior potere sull’economia per finalità elettorali è sempre presente e difficilmente frenabile nonostante l’ottimismo mostrato dalla nuova classe di governo.
Il sistema privato regolamentato funziona, al momento, grosso modo così. Lo Stato garantisce al privato una remunerazione del capitale investito fissa e adeguata alle proprie esigenze di profitto e di competitività. La remunerazione del capitale copre il rischio d’impresa (e fatti tragici come quello di Genova dimostrano drammaticamente che il rischio d’impresa in questo settore esiste). In cambio di questa remunerazione, Autostrade si impegna a realizzare un piano d’investimenti e di manutenzione per la gestione e l’ammodernamento della struttura.
C’è chi pensa che una gestione diretta dello Stato, che ha un rischio inferiore, possa imporre un tasso di remunerazione inferiore. Ma l’amministrazione pubblica con la sua situazione debitoria complessiva è veramente in situazione di rischio minore? Potrebbe veramente imporre tassi di remunerazione più bassi e sarebbe in grado di imporre una maggiore efficienza degli standard del servizio al cittadino-utente?
Quando si prende una decisione, non bisogna mai ragionare in astratto, ma partire da dove siamo e dai costi e benefici derivanti da un cambio di rotta. L’eventuale ri-nazionalizzazione della rete autostradale dovrebbe tener conto dei costi di risarcimento di vari attori e, secondo alcuni calcoli (da verificare), porrebbe sulle spalle dello Stato oneri per almeno 39 miliardi.
Tenuto conto di tutte queste condizioni forse una soluzione più semplice c’è. Come economisti civili in fondo siamo interessati al risultato finale della responsabilità sociale d’impresa e non ai proclami di partenza.
Una parte del governo è ansiosa di mostrare la propria determinazione ri-nazionalizzando Autostrade per l’Italia. Ma forse è più efficiente e meno costoso agire definendo un contratto di concessione che orienti ancora più decisamente quest’attività economica verso le finalità di bene comune piuttosto che gestendo direttamente.
In fondo, per eccellere negli sport equestri basta essere un buon fantino, che usa bene le briglie su cavalli di qualità. Non c’è bisogno di trasformarsi in cavalli. Su queste pagine lo si scrive da anni, indicando modelli positivi e sottolineando buone pratiche già in atto nel nostro stesso Paese. Invece che nazionalizzando, è più efficace mostrare chiarezza di visione e di intenti concreti prima e non dopo eventuali tragedie. E mostrarla, magari, non inesorabilmente in favore di telecamera.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: