Passano e ripassano in tv, sui giornali, le foto di quella ragazzina con i capelli lunghi, il sorriso timido e gli shorts aderenti, quasi a sfidare: sono già una donna – in una fierezza tuttavia ancora infantile. Passano e ripassano le foto di Desirée Mariottini, accompagnate da particolari d’inferno. Drogata, violentata da più uomini per molte ore e lasciata agonizzare, sola. Nel centro di Roma. L’orrore è tale che sei tentato di non leggere, di non sapere.
Ma ogni tg ti ributta in faccia il volto di questa sedicenne, poco più che una bambina. E a ognuno che abbia figli o nipoti, o adolescenti che gli sono cari, nell’ascoltare si torce qualcosa nel cuore. Non è morta per una disgrazia, Desirée, ma è stata attirata in trappola e violentata dai suoi aguzzini per una notte intera. Il sapere di una simile ferocia non ci lascia in pace. Giustizia, si invoca e si promette. Certo, giustizia: urgente e doveroso. Ma anche quando fosse fatta, ci basterà la giustizia a cancellare quella notte a San Lorenzo? Le grida, il terrore, gli ultimi istanti di coscienza di una povera preda? Giustizia, certo. Eppure, ci pare così poco.
Chi poi è cristiano, si rabbuia ulteriormente. Perché noi, che ci diciamo certi di un disegno buono di Dio per ognuno dei suoi figli, guardiamo al destino di questa ragazzina e non possiamo non chiederci perché non ha incontrato una sola persona che la potesse aiutare; o perché l’ha incontrata, e non l’ha saputa riconoscere.
Perché, pure in una famiglia divisa e tormentata, la sua solitudine fosse così assoluta da smettere di andare a scuola, da drogarsi, da aggirarsi da sola di notte fra gli spacciatori: fino al massacro, sempre sola. E il Dio che ci ama tutti, insorge aspra la domanda, non aveva un disegno buono anche per lei? Che ne è stato, del disegno di Dio per Desirée? (Per la bambina che pure, messa al mondo da una mamma appena quindicenne, era stata chiamata, fra mille nomi possibili, "desiderata").
Sono domande che ti lasciano zitta, e tuttavia avverti come uno scricchiolio nelle tue stesse fondamenta. L’amore di Dio, o c’è per ciascuno, o non c’è. Qualcuno ti risponderà subito che Dio ha lasciato il suo stesso figlio morire in Croce, e che il suo disegno è spesso ai nostri occhi incomprensibile.
Assolutamente vero, e però davanti a storie come quella di Roma la più giusta e pronta delle risposte non vale forse quel momento o quei giorni di silenzio, quel ritrovarsi senza parole. La libertà a sedici anni è così acerba, soprattutto se sei cresciuta in una famiglia azzoppata, che comunque questa sedicenne violata e abbandonata agonizzante è una figura del dolore innocente. Il più grande dei misteri, il più intollerabile.
Tornano implacabili quelle foto sui tg, e quei particolari. Lo scandalo del male è tale, che ci troviamo davanti a una scelta. Non volerci pensare, seppellire la domanda che si affaccia - e però, in fondo, cominciare a dubitare di Dio. O affrontare invece questa domanda e, non trovando un plausibile perché, fronteggiare la disperazione ( se non è vero che Dio ci conosce e ci ama a uno a uno, cosa siamo?)
C’è poi una terza via, forse: lasciare che la domanda ci insegua, ci incalzi, infine si depositi in noi. Lasciare che ci cada dentro come un macigno e, finito l’eco del boato, si faccia un più largo silenzio. Un silenzio e un vuoto. Come una povertà assoluta. Come la mano tesa di un mendicante, che chiede la carità. Accogliere in sé questo silenzio e vuoto, come una cavità che ci si apre nel petto: farne una preghiera. Farne un luogo in cui Dio possa trovare spazio in noi. («L’anima non è che una cavità che Egli riempie», ha scritto Clive Staples Lewis, grande scrittore cristiano).
E domandare che in questo spazio, in questo tetto che, pure senza capire, gli lasciamo, Dio ci renda più generosi e più capaci di vedere. Di vedere gli altri, ogni sconosciuto altro. Capaci di scorgere, nelle famiglie, nelle scuole, negli oratori, le Desirée che sbocciano sole, senza nessuno a proteggerle, come certi fiori sulle massicciate delle ferrovie, a maggio; di riconoscerle, e prendercene cura come fossero, i figli che paiono di nessuno, figli nostri.