De Klerk (ri)conoscersi e saper attraversare porte
venerdì 12 novembre 2021

Quale Africa attraverserà questo secolo? E quale e quanta Africa siamo noi disposti a vedere, abbracciare, sostenere? Raccontava Frederik de Klerk, in un’intervista che ci concesse una decina d’anni fa, che al primo incontro con Nelson Mandela non avevano discusso di niente di specifico: «Ci siamo solo dati la possibilità di conoscerci», sottolineò l’ultimo presidente bianco del Sudafrica dell’apartheid, morto ieri per un tumore a 85 anni. La Storia – aveva aggiunto colui che arrivò a rilasciare 'Madiba' dopo tre decenni di carcere e che con Mandela condivise il Nobel per la pace del 1993 – alla fine degli anni 80 del Novecento aveva aperto una porta, e a lui toccò solo «l’onore di guidare il Paese attraverso quella porta». De Klerk riconosceva, però, che la creazione in Sudafrica di una democrazia fondata sul rifiuto del razzismo non era stata accompagnata da progressi importanti sul fronte dell’uguaglianza, né aveva assicurato migliori condizioni di vita alla maggior parte dei cittadini. Da sola, insomma, la democrazia, per quanto 'arcobaleno', non bastava. Anni dopo, ben prima che scoppiasse una nuova 'apartheid', quella prodotta dalla pandemia di Covid-19, nella township sudafricana di Philippi, 200mila abitanti ammassati tra baracche di legno e lamiera, strade colme di buche e servizi assenti, potemmo vedere che fine avevano fatto alcune delle poche case costruite dall’African National Congress. Muri tirati via, tetto divelto, finestre in frantumi: erano state tutte vandalizzate poco prima di essere ultimate. Perché in un posto senza prospettive, senza lavoro né sostegno all’istruzione e in preda alle gang, un intervento attuato in assenza di una maggiore programmazione aveva scatenato solo una drammatica guerra tra poveri. Nessuno voleva o poteva aspettare il suo turno per l’assegnazione: così, per l’impazienza di entrarne in possesso prima di qualcun altro, gli abitanti della zona finirono per distruggerle, quelle case. Il tutto mentre poco distante, nell’europea Città del Capo, colpivano l’ordine, la pulizia e i servizi, a vantaggio non solo dei bianchi, ma anche di una nuova élite nera, i cui figli si ritrovavano la sera a ballare nei locali di Green Point. Era, quella, la prima generazione che di de Klerk e Mandela aveva letto solo sui libri di storia e che vedeva il Sudafrica salire al primo posto nella classifica mondiale della disuguaglianza. La generazione che delle lotte di Soweto non aveva un ricordo personale ma che in qualche modo voleva emergere, mentre al governo si alternavano i Thabo Mbeki e gli Jacob Zuma, che sarebbe finito clamorosamente agli arresti. Oggi quasi metà dei sudafricani vive in povertà e un abitante su tre è disoccupato, ma il reddito medio dei bianchi è ancora il triplo di quello dei neri. Le promesse post-apartheid si sono infrante sull’inefficienza e la corruzione, ma, non va ignorato, anche sulla disattenzione di una parte di mondo, il nostro, che dell’Africa e dei suoi destini non riesce ad appassionarsi. La pandemia di Covid-19 – che in Sudafrica ha causato 90mila dei 220mila morti ufficiali registrati nel continente nero – è solo l’ultima dimostrazione di un’attenzione intermittente. L’Africa senza vaccini e dall’economia a pezzi, di una sanità assente, di un’agricoltura sconvolta da siccità e inondazioni. L’Africa di una guerra senza immagini, come quella in Etiopia di cui troppo poco sappiamo. L’Africa che prova a scappare e quella che, con aiuti e politiche eque, vorrebbe e saprebbe invece costruirsi un futuro adeguato. L’Africa in cui, vinta l’apartheid, rischiano di affermarsi altre segregazioni, altre esclusioni. Siamo disposti a osservarla e sostenerla veramente? «Ci siamo solo dati la possibilità di conoscerci», disse de Klerk. Quale potenza evocativa, nel tempo di una necessaria nuova relazione euro-africana, in una frase così breve. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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