Caro direttore,
autodeterminazione: a ben vedere il dibattito infuocato di questi giorni sul ddl Zan (e appena ieri e già domani su vita e morte) ruota tutto attorno a questa parola. Parola a volte urlata, altre sussurrata, altre ancora taciuta. Ma è lì che vanno a infrangersi tutti i distinguo e i però e le spiegazioni. Al di là e oltre la formulazione del singolo articolo, ciò che dovrebbe far riflettere tutti, e auspicabilmente suggerire una pausa di riflessione, è che forse mai come in questo frangente, questa legge tanto controversa di cui si sta parlando, è stato teorizzato fino a essere messo nero su bianco un principio tanto semplice quanto dalle conseguenze potenzialmente devastanti: l’abolizione del principio di realtà e la sua sostituzione con il principio di percezione. Sta tutto qui il limite, per usare un eufemismo, del ddl Zan. Il fatto cioè che la realtà cessa di essere un qualcosa di oggettivo, di esterno al soggetto e che lo precede, per diventare pura materia grezza che il soggetto può plasmare a suo piacimento. È fin troppo facile scorgere dietro questa impostazione il disegno di una volontà prometeica, una volontà di potenza che fa dell’uomo l’unico artefice della propria vita. Per dare la misura della gravità della posta in gioco, basti pensare che l’affermazione del principio di percezione e tutti i suoi derivati, corrisponde a ciò che nella tradizione cattolica da sant’Agostino in poi è stato identificato niente meno che come l’essenza stessa del peccato originale: l’uomo che si fa dio di se stesso decidendo lui ciò che è bene e ciò che è male. Da qui la domanda: vogliamo davvero che la società, il mondo che lasciamo ai nostri figli si regga su princìpi morali e culturali che sono ultimamente espressione di un atto di superbia? È in gioco la grammatica della vita. Possibile che nessuno (o quasi) alzi la voce per denunciare che se si ammette che ciascun individuo è un assoluto, cioè sciolto ( ab-solutus) da ogni legame in quanto insindacabile artefice della proprio destino, questo porterà a legittimare l’anarchia morale (senza alcuna declinazione moralisticheggiante del termine, non è questo il punto) ossia l’affermazione di una società senza un principio dove esisteranno tante identità quante saranno le “percezioni di sé” sottostanti? Col risultato che si imporranno solo i più forti?
Luca Del Pozzo
Il punto che lei sottolinea con ragionamento alto e lucido, caro amico, è cruciale ed uno di quelli che sono stati ben individuati e sottolineati da chi, come noi, contesta da tempo una serie di passaggi del testo votato in prima lettura alla Camera e in particolare l’introduzione e la definizione all’articolo 1 dell’«identità di genere» . Il testo oggi recita: «Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione». Se si punta a negare il reale e a far valere solo il “percepito” si gioca col fuoco con conseguenze pericolose su un’infinità di “frontiere” della nostra umanità e delle regole (morali e giuridiche) che dovrebbero presidiarla. E quest’operazione nulla c’entra con l’obiettivo dichiarato di rafforzare la difesa da offese e violenze per le persone omosessuali o transessuali. Sembra che se ne stiano rendendo conto in tanti, in diversi gruppi parlamentari. Meno male. Ecco perché continuiamo a ripetere che se si vuol far procedere su un binario accettabile un’iniziativa di legge in materia, bisogna saper cambiare registro.