A quanto pare, ma non si può dire con certezza perché il Covid non permette più approcci baldanzosi nell’analisi della realtà, la grandissima parte dei nuovi contagi si deve ai pranzi e alle cene natalizie. La reazione immediata è dunque quella di mettere sotto accusa chi ha ceduto alla tentazione di vedere parenti e amici, di sedersi a tavola, togliersi la mascherina e parlare. Magari ad alta voce.
Un atto abbastanza irresponsabile, considerate le ricadute, ma in fondo inevitabile anche nelle sue conseguenze: se durante le feste le persone non sono andate al lavoro e non si sono assembrate per strada a gironzolare, bere spritz o vin brulé, perché impedito dalle norme di emergenza o considerato inopportuno, dove potevano contagiarsi se non in casa, magari nel gesto di scambiarsi quei regali acquistati anche sull’abbrivio del cashback di Stato? Come si può intuire il problema, che sta unendo i destini del mondo come forse mai nessun’altra vicenda nella storia del pianeta, se non i grandi conflitti o le estinzioni di massa (e da questo dovremmo trarne una grande lezione di fratellanza planetaria), non riguarda più il dibattito su cosa chiudere e cosa no, sui colori delle zone, o sui comportamenti virtuosi per conquistare quella libertà che ormai solo il vaccino riesce a prefigurare.
Forse cioè non dovremmo più domandarci cosa sbagliamo e cosa possiamo cambiare, quali nuovi confini alzare per contrastare la diffusione del virus. Abbiamo visto che non ce la facciamo con questo approccio: in generale la gente fatica a non parlarsi vicino, a non stare a tavola o al tavolino con gli amici, a non entrare nelle case altrui, perché 'tanto, dai!, siamo tra di noi e poi abbiamo fatto il tampone...'. Eppure, si dirà, basterebbe poco. Basterebbe smettere di parlare, come avviene in quel film in cui al minimo rumore o alla prima parola si viene divorati da terribili mostri che popolano la terra ('A quiet place', 2018). Basterebbe impedire alle persone di incontrare altre persone, quantomeno al chiuso, che è diverso dal vedersi fuori. O, se vogliamo restare sul piano delle scelte binarie, provare a ribaltare le priorità e proibire le partite viste al bar ma non quelle dei tornei giovanili, i pizzoccheri in baita ma non lo sci, gli assembramenti in sala scommesse ma non a scuola. E si potrebbe persino discutere su quale libertà costituzionale sia meglio sospendere: se la libertà di circolazione (art. 16) o se quella di assemblea (art. 17).
Perché non è sbagliato interrogarsi sul tipo di comportamento da considerare più pericoloso: una persona o una famiglia che si sposta liberamente sul territorio e nella natura evitando ogni contatto umano, oppure tante persone costrette in un’area limitata ma alle quali non è impedito ritrovarsi? La risposta sarebbe semplice, se tolta la pelle da orsi non fossimo anche animali terribilmente relazionali. Dunque la questione potrebbe non essere più confinata alla domanda sul cosa chiudere e cosa no, come, e per quanto tempo. Ma passare ad interrogarci su cosa siamo disposti a sacrificare di nostro e come comunità per un bene più grande, e poi metterci d’accordo sulla natura di questo 'bene più grande', dato che il compromesso comporta comunque un rischio per la salute di molti e sofferenze più alte per qualcuno.
Allora, dobbiamo salvare l’economia e il lavoro oppure un modello di sviluppo fondato sull’iper-consumo? Dobbiamo salvare vite o il principio di umanità che non prevede di considerare nessuno quale scarto, che sia anziano, povero, oppure abitante di un Paese lontano? Dobbiamo tutelare la salute fisica o quella mentale? Ma, soprattutto, va salvato il presente oppure il futuro? Perché se abbiamo ancora la voglia e la forza di compiere sacrifici e di essere pronti a pagarne il prezzo a livello personale con uno sguardo verso il mondo che sarà, allora non ci dovrebbero essere molti dubbi: prima di tutto vengono i giovani e i bambini, la possibilità di assicurare loro le migliori condizioni affinché arrivino a desiderare un mondo ancora più bello, libero, sostenibile e solidale di quello che siamo stati in grado di realizzare fin qui. Ogni privazione educativa, di formazione, o anche di gioco e ricreazione che viene loro negata è, da parte nostra, un sacrificio mancato, una lezione sbagliata, un esempio non dato. Eppure, tutto quello che facciamo, dalle fatiche alle rinunce di ogni giorno, non dovremmo farlo per loro? Altrimenti, per chi?