Che in Ucraina non siamo in guerra è solo un’illusione ottica, sostenuta a reti pressoché unificate dal sistema di informazione non solo in Italia. Perché questo serve a tenere agganciate le opinioni pubbliche occidentali ed europee alla linea scelta dai loro governi per risolvere il conflitto in Ucraina. Certamente insorto, in spregio al diritto internazionale, per la brutale invasione russa, ma le cui ragioni risalenti e di prospettiva, e proprio ai fini di risolverlo, sono irriducibili al mero contenzioso sul terreno. Questa linea, almeno quella enunciata, punta alla sconfitta definitiva della Russia, da metter in condizione di non nuocere perché quel che ha fatto in Ucraina potrebbe ripeterlo altrove.
L’appoggio a Kiev, quindi, non solo ha ragioni di diritto internazionale e morali di sostegno agli aggrediti, ma è anche nostro interesse. E all’Ucraina dobbiamo essere grati, perché l’Ucraina sta combattendo anche per noi, mentre noi non stiamo “combattendo”. Tanto è vero che non abbiamo truppe sul terreno e ci limitiamo a fornire armi di “difesa”, per evitare una escalation che coinvolgendo la Nato sarebbe la nostra “discesa” in guerra. Una narrazione la cui lontananza dalla realtà non sfugge alle nostre opinioni pubbliche, se fanno fede i sondaggi largamente contrari alla guerra.
Che contrari sono non per un sentiment egoistico e finanche cinico rispetto agli empiti etico-politici di diritto internazionale dei loro governi, come pure si è costretti a leggere. Ma forse più banalmente perché esprimono la preoccupazione che siamo già (quasi) del tutto pienamente coinvolti nel conflitto, e che manca poco che venga meno quel “quasi”: gli “scarponi sul terreno” e “casa nostra” non più al riparo. Il punto è che i pretesi egoismi e viltà pacifisti delle nostre opinioni pubbliche percepiscono chiaramente come sia illusorio pensarsi non in guerra nel contesto contemporaneo della guerra “ibrida”: un mixaggio variamente dosato di operazioni economico-finanziarie, di destabilizzazione di intelligence dei paesi avversi, di guerre “diplomatiche” e digitali, di uso senza remore di emergenze sociali ed ambientali, dove la voce della armi, quando anche eclatante, è solo una parte del conflitto; e, se non si arriva all’armageddon nucleare, neppure la più rilevante in termini di vittime (vedi i morti per fame per cui si cerca un corridoio umanitario per il grano) e di distruzione di sistemi sociali ed economici e politici cui in questo tipo di guerra si mira. Per altro, il confronto militare sul terreno – “contenuto” per “responsabilità” – serve anche, fin quando a qualcuno non scappi il grilletto, a testare in vivo (come si fa con i farmaci) l’efficacia dei propri sistemi d’arma, per guadagnare deterrenza strategica sull’avversario. In un contesto del genere, far tacere le armi è certamente fondamentale, ed è il primo passo necessario.
Ma ai fini della “stabilità” della pace – cioè che non si incorra in Ucraine peggiori – è per certi aspetti prendere il problema per la coda. Prenderlo per la testa è prenderlo dal lato degli interessi imperiali (di varia natura e stazza) che si stanno scontrando nella crisi degli equilibri di potere (economici, geopolitici, militari) che la globalizzazione ha indotto. Il vecchio ordine è andato in crisi. La data simbolo è il 1989 con il crollo del muro di Berlino, ma il dato concreto più rilevante è l’ascesa della Cina. Ma un nuovo ordine fatica a nascere per la resistenza, anche occidentale, a farlo nascere.
Questo nuovo ordine – se non si è così dissennati da pensare di poterlo imporre con le armi – può avere solo due capisaldi: l’accettazione di una governance multipolare della globalizzazione, e l’esclusione del ricorso alle armi per definire ruoli e pesi nel supermercato globale che è diventato il mondo. Solo quest’opzione “liberale” nel governo del mercato globale che è il mondo, cioè il venire meno delle pretese di monopoli o duopoli del rango “imperiale”, e il riparto di quote di controllo del mercato-mondo affidato a una logica se non cooperativa, quanto meno di confronto competitivo che non includa il ricorso alle armi, può anche essere un’opzione “liberante” per il mondo, almeno dalle paure e dalle angosce di uno scontro non di civiltà, ma dell’inciviltà di una lex mercatoria armata. La stretta di mano a Bali tra Biden e Xi era sembrata essere un passo in questa direzione, che è poi il bisogno dei popoli di essere liberati quanto meno dall’angoscia dell’autodistruzione.
Oggi quella stretta di mano sembra tragicamente lontana, eppure è da lì che bisogna ripartire, allargando il campo di chi si dà la mano, per spegnere la guerra ibrida sui vari scenari, uno per uno, in cui è in atto e in cui siamo pienamente coinvolti; per evitare che questa guerra ibrida si esplichi nell’intero spettro delle sue articolazioni, in un drammatico scenario di confronto militare diretto, la cui logica intrinseca – propria allo scontro nucleare – non contempla vincitori sul terreno, ma solo vinti, da una parte e dall’altra.