Il “vero” (così come il “buono il “bello” e il “giusto”) per loro propria natura, e non nonostante essa, dovrebbero sapersi tradurre in ogni lingua, contesto e momento storico appunto in forza della loro universalità. Non sono dunque i mediatici quanto efficaci “buonasera” e “buon pranzo” di papa Francesco, né “il nuovo Vescovo di Roma” preso “alla fine del mondo” a connotarne lo stile quanto la profetica intuizione espressa negli auguri di Natale alla Curia romana del 2019: «Quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza».
È senza dubbio vero che l’era attuale è segnata anche da disorientamento e confusione, dovute al termine di un sistema bipolare che, pur segnato da tensioni e squilibri, ha a lungo rappresentato una qualche forma di disabilità.
Non a caso risorgono e acquistano forza bizzarre ideologie quali l’euroasiatismo rossobruno di Alexander Dugin, erede del nazional-bolscevismo di un secolo fa, al servizio del sogno neo imperial-coloniale del nuovo zar, il rozzo suprematismo bianco isolazionista di Donald Trump, ma anche fondamentalismi etnico-religiosi che hanno dolorosamente segnato il destino recente dei Balcani e si estendono nel Medio Oriente, sia tra le componenti intransigenti dell’attuale amministrazione israeliana quanto nei regimi iraniano e afghano, che non sembrano avere limiti nel reprimere donne che mostrino un ciuffo di capelli o che osino parlare in pubblico.
È dunque ammirevole la determinazione con cui, dal “Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” del 2019 ad Abu Dhabi all’attuale dichiarazione di Giakarta papa Francesco si è speso come nessuno mai prima di lui per il dialogo con l’islam, questa volta nel Paese musulmano più popoloso al mondo, sebbene assai poco noto dalle nostre parti. Se la lingua e la cultura araba sono infatti predominanti per prestigio tra i musulmani, i credenti di questa fede prevalgono altrove, e non da ieri. L’islamizzazione dell’antica Persia zoroastriana, dell’Egitto e del Nordafrica allora cristiani, dell’Asia Centrale e quindi dell’Estremo Oriente con tradizioni spirituali ancor più varie, ha fatto confluire nella unica Umma o Comunità musulmana genti di ceppo, linguaggio, cultura e antropologia simili per numero e varietà a quante si sono unite nel corso dei secoli nell’unica Chiesa cattolica anche in Africa, Asia e Oceania. Non a caso la Costituzione indonesiana del 1945 si basa sulla cosiddetta “pancasila”, cioè su cinque princìpi: il credo in un unico Dio, l’unità della nazione, l’umanesimo, la giustizia e la democrazia.
Il valore di quest’apertura da parte del Pontefice, e proprio con una confessione religiosa che sia nel passato che attualmente è spesso avvertita come diversa, estranea se non ostile, non appare soltanto dal confronto con un mondo sempre più conflittuale ma indica la strada maestra anche per superare i numerosi dissidi – e di non poco conto – all’interno delle medesime compagini. Essere berberi piuttosto che arabi, kurdi invece che turchi, sciiti e non sunniti sono fatti che rappresentano lacerazioni annose e dolorose anche in campo intra-islamico, per tacere delle numerose limitazioni cui sono sottoposti cittadini monoteisti ma non musulmani e di altra o nessuna appartenenza religiosa laddove si applicano i princìpi della Shari’a. La stoffa del “credente” che emerge da questi messaggi, condivisa dalla maggior parte dei fedeli di ogni credo rettamente inteso (maggioranza silenziosa che spesso snobbiamo a favore di chi fa la voce più grossa), è quella di chi mostra la propria identità di cui è giustamnente geloso e fiero non in contrasto con quella altrui ma in una complementarietà e in un virtuoso confronto incoraggiati dallo stesso Corano: «A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre, se Iddio avesse voluto avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia» (5, 48).
Se in molte biblioteche universitarie di Paesi arabi sarebbe arduo reperire una copia della Bibbia in lingua locale, non è lo stesso in Turchia, in Iran o in Indonesia. Iscrivere d’ufficio tutti i musulmani nella lista dei sospetti, indesiderabili e potenzialmente radicali, se non possibili terroristi, sarebbe l’immeritato premio offerto a un ristretto gruppo di esponenti di un fanatismo da cui nessuno può ritenersi totalmente immune, che contrasta col buon senso e con la fiducia in un unico Dio, Creatore e Signore di ogni essere umano, da Lui voluto, amato e stimato in quanto tale.