Dalla panchina al campo a quando l'ora dei giovani?
mercoledì 26 gennaio 2022

Tra la panchina e il campo passano giusto due braccia d’erba, ma per varcare la linea laterale ed entrare tra i titolari può occorrere una vita. Ci sono panchinari che del gioco hanno un punto di vista perennemente marginale, confinati tra le riserve nell’attesa che qualcuno si accorga di loro e li butti una buona volta nella mischia, fosse pure solo per necessità. In un Paese che invecchia a passo di carica è sempre più spesso questo il destino dei giovani, che si preparano a giocare e scalpitano per mostrare quanto valgono ma poi devono adattarsi al ruolo di comprimari, nell’anticamera di professioni che li considerano eterni apprendisti. Il calcio, come spesso accade in Italia, è metafora talmente calzante della realtà nazionale da aderire come una seconda pelle a dinamiche sociali consolidate, delle quali in fondo non è che un’espressione evidente a tutti.

Prendete quel che sta accadendo con l’epidemia di Covid che si è abbattuta anche sugli organici delle squadre professionistiche. Pressata dal calendario ingolfato di impegni dei club tra campionato e coppe, cui si aggiungono le scadenze della Nazionale, la Federazione ha elaborato un rigido protocollo di sicurezza che assai più della salute dei giocatori sembra però avere come priorità non accumulare arretrati di partite che poi non si saprebbe più quando recuperare.

E al posto della prassi cavalleresca di rimandare match con squadre che contano qualche assenza per positività, ha introdotto il limite del 35% di contagiati nel 'gruppo atleti' al di sotto del quale la squadra non può sottrarsi alla partita, con l’obbligo di attingere anche alle formazioni Primavera per rimpiazzare campioni confinati in casa. L’esito è la disputa di incontri che vedono contrapposte formazioni quasi del tutto indenni dalla malattia, assolutamente competitive, ad altre falcidiate dal virus, che devono schierare ragazzini nati anche ampiamente dopo il 2000. E così i tabellini di vari incontri di serie A pullulano di nomi mai sentiti, richiamati in tutta fretta dai tornei giovanili per giocare con i 'grandi'.

Finalmente aria nuova in uno sport strangolato da stipendi esagerati, procuratori famelici e calciatori 'di nome' forse sopravvalutati? Nient’affatto. La critica sportiva prevalente, la stessa che invita ad ammirare il coraggio all’estero di far debuttare giovani del vivaio, s’è inalberata come davanti a un’eresia: basta con questa farsa, partite squilibrate, campionato falsato, non è serio genuflettersi al business degli incontri da effettuare a ogni costo per non trovarsi in ritardo su calendari concepiti per trasmettere telecalcio a ogni ora del giorno. Vero, giusto. O forse no.

Perché la storia sembra essersi stufata di vedere giovanissimi sempre in sala d’aspetto e ha confezionato un’occasione impensabile per obbligare chi ne gestisce i destini a metterli alla prova. È così che, smessa la divisa dei rincalzi, se la stanno giocando finalmente da protagonisti ragazzini che forse non diventeranno fenomeni da calciomercato ma che mostrano a un’Italia ingrigita e iper- prudente che nella panchina del Paese, nella Primavera della società, ci sono fior di risorse, in difesa e in attacco, in regia e a guardia della porta. E pazienza se sbagliano un calcio d’angolo, o un’uscita in presa.

Perché il problema non sono loro ma chi fatica a dargli credito e spazio considerandoli più a lungo che si può come 'volenterose promesse', nel girone degli 'ancora acerbi', degli inadatti a stare fianco a fianco con gli adulti, ma che con questa mentalità il campo – quello vero della vita – non lo assaggeranno se non a sogni evaporati, esortati intanto a stare in silenzio per attendere che qualcuno si giri verso la panchina a dirgli: 'Dai, scaldati, ragazzo'. Accade nel calcio, ma è quello che succede nelle corsie degli ospedali e negli studi professionali, tra università e cantieri, in multinazionali, redazioni, servizi pubblici, anche nella Chiesa, e ancor più vistosamente nella politica.

Accedere a una maglia da titolare non è un diritto, certo: però quando se ne offre l’opportunità – e sappiamo che accade assai più spesso di quanto noi del 'gruppo atleti' vorremmo ammettere – serve che il posto in squadra non sia offerto come un regalo del destino ma per la consapevolezza che la prossima parola spetta a loro, e sarà una parola ancora mai sentita. Un’occasione per la generazione che cresce, certo. Ma in fondo la chance che diamo a noi stessi di coniugare ancora la vita al futuro.

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