Le guerre e la realpolitik oscurano l’impegno a fianco delle donne oppresse
mercoledì 14 agosto 2024

Quanto coraggio serve a una donna per protestare in Afghanistan, proprio oggi, contro la politica misogina e liberticida dei taleban? I barbuti studenti coranici, che esattamente tre anni fa si riprendevano il potere approfittando del ritiro anticipato dei soldati della Nato, hanno inscenato parate e celebrazioni per il “Giorno della Vittoria”, perfino, com’è accaduto nell’ex base Usa di Bagram, pavoneggiandosi con le attrezzature militari abbandonate dagli americani, e costringendo migliaia di studenti e decine di presidi, tutti uomini, a omaggiare le autorità taleban.

Intanto, gruppetti di donne da diverse città rilanciavano sui social i video dei loro disperati picchetti contro l’apartheid di genere architettato in nome di una distorta lettura dei precetti dell’islam. Le attiviste dell’Afghanistan Powerful Women’s Movement, a rischio della propria vita, hanno agitato cartelli che chiedono al mondo di non lasciarle sole, di “liberare le donne afghane”, prigioniere nei loro burqa da quel 15 agosto 2021 che per loro è il “Giorno nero della storia”.

Ma il mondo ha altro a cui pensare, che alle donne afghane. Anzi, ne è perfino infastidito: mostrare l’identico slogan (“Free Afghan Women”) su una mantellina è costata all’atleta olimpionica di break dance Manizha Talash l’espulsione dai Giochi, sebbene lei si trovasse a Parigi proprio in qualità di fuggiasca dal Paese che perseguita le donne. La punizione inflitta alla giovane Manizha non è il rispetto delle regole, come sostiene il Comitato olimpico internazionale, ma la cancellazione dell’auspicata fratellanza (anzi, in questo caso: sorellanza) universale rappresentata dallo sport.

Il mondo, dicevamo, ha altro a cui pensare e la realpolitik suggerisce che bisogna sacrificare molta verità e molta giustizia se si vuole continuare a dialogare, perfino con i tiranni, per evitare guai peggiori. Accade con i taleban, perché non si può stare a guardare mentre si affacciano nuove fruttuose alleanze con Cina e Russia per lo sfruttamento delle miniere, e dunque si organizzano incontri sotto l’egida dell’Onu (Doha, 30 giugno) eliminando sia la presenza di donne sia la discussione dei dossier sul rispetto dei loro diritti. Cancellate.

Accade con l’Iran, e non da oggi. Le diplomazie stanno lavorando incessantemente per convincere gli ayatollah a soprassedere ai propositi di vendetta contro Israele per l’uccisione del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, sul loro territorio il 31 luglio. Giusto dialogare, ma come? E dimenticando cosa? Intanto il regime ha mano libera all’interno: così non desta il giusto scandalo il fatto che Narges Mohammadi, eroina della resistenza, premio Nobel per la pace 2023, nei giorni scorsi sia stata picchiata nel carcere di Evin, che non possa incontrare i suoi avvocati e che abbia iniziato uno sciopero della fame che ne mette a repentaglio la sopravvivenza. Né suscita orrore così come dovrebbe la triste vicenda di Arezou Badri, 31enne madre di due bambini, che dal 22 luglio giace in un letto d’ospedale, paralizzata a causa dei colpi d’arma da fuoco che l’hanno bersagliata mentre guidava, a capo scoperto, la sua auto nel nord del Paese.

E accade anche in Medio Oriente dove gli stupri feroci compiuti dai terroristi di Hamas nell’attacco del 7 ottobre 2023 sulle donne israeliane hanno fatto il paio con le atroci sofferenze inflitte a centinaia di migliaia di mogli, madri, sorelle, figlie di Gaza; dolore innocente, presto dimenticato, superato da nuove emergenze, da nuove diplomazie, da nuovi tentativi di mettere a tacere gli orrori.

La Guerra cancella le guerre ingaggiate contro le donne in molti Paesi del mondo. Nell’indifferenza di tutti gli altri.

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