«È il nostro 11 settembre», ha titolato
Le Monde. Ma la definizione, comprensibilmente dettata dallo choc e dallo sdegno del primo momento, risulta del tutto inadeguata per spiegare quel che è successo a Parigi con la strage nella redazione di
Charlie Hebdo ed è proseguito venerdì con l’attacco a un negozio ebraico. Qui non siamo di fronte all’esplosione di un terrore cieco scatenato da fanatici kamikaze, bensì a un’operazione di stampo militare condotta da killer professionisti contro obiettivi individuati con precisione come nemici dell’islam. Il jihad ha subìto un salto di qualità: i terroristi con la cintura imbottita di esplosivo in Europa si sono trasformati in assassini ben addestrati, soldati pronti a veri e propri atti di guerra. Per Benladen, il fondatore di al-Qaeda, noi occidentali eravamo un nemico lontano che doveva essere colpito per destabilizzare i suoi nemici vicini, i regimi musulmani alleati dell’America. Negli ultimi mesi il panorama è drasticamente mutato con la comparsa sulla scena medio-orientale dell’Is, lo Stato Islamico, e dell’esercito dell’auto-proclamato 'califfato' che governa ormai su un terzo dei territori dell’Iraq e della Siria e aspira ad allargarsi alla Turchia e a Libano, fino a includere le antiche terre islamiche della Spagna e, vagheggia, di innalzare la bandiera nera su Roma. Tutta la galassia dell’estremismo islamico, compresa al-Qaeda, ha cambiato strategia in seguito alle vittorie sul campo dell’Is. La cacciata dei cristiani iracheni da Mosul e dalla piana di Ninive, la tragedia dei profughi in Kurdistan hanno rappresentato l’apertura di un fronte di guerra, iniziata nell’estate dello scorso anno, che mira ad estendersi ben oltre il Medio Oriente. «Arriveranno anche da voi, in Europa», ci avevano ammonito rare e coraggiosi voci come quella del vescovo di Mosul, mosignor Nona. Ma l’Occidente, cieco e sordo, ha pensato che fosse la tipica esagerazione di chi è messo a dura prova dalle circostanze. E adesso siamo qui a gridare al jihad dentro casa nostra, attoniti e sconvolti da un massacro in stile iracheno e pachistano nella Parigi gauchiste, laica e libertaria. Non sono 'lupi solitari', si tratta di giovani islamici di nazionalità francese reduci dai fronti caldi di Sira e Yemen, combattenti volontari nelle file dell’Is o di altri gruppi radicali che intendono portare avanti la loro guerra in Europa. E vogliono vincerla, imponendo un’ideologia politica rozza e brutale, una religione che è l’antitesi della ragione, uno stile di vita arcaico e illiberale. È qualcosa di diverso dall’11 settembre, ma non per questo meno inquietante. È da quella tragica data che abbiamo iniziato a conoscere la paura, a preoccuparci per un possibile attentato che entri dirompente e omicida nella nostra vita quotidiana. Ma non per questo abbiamo smesso di prendere treni e aerei o di entrare in un affollato supermercato. Altra cosa è la guerra, quella che i nuovi jihadisti hanno dichiarato alla nostra civiltà. E diversa è la paura che vogliono incutere. Nell’emozione del giorno dopo migliaia di europei, non solo francesi, sono scesi in piazza innalzando delle matite in segno di solidarietà con i vignettisti di
Charlie Hebdo barbaramente uccisi e a difesa della libertà d’espressione. Già, ma chi avrà il coraggio d’ora in poi di andare in giro per Parigi, nella banlieue dove i musulmani sono la stragrande maggioranza, leggendo tranquillamente un giornale dove appare una vignetta satirica su Maometto o un libro sospettato di antiislamismo? È di venerdì la notizia che lo scrittore più noto del momento, Michel Houellebecq, ha sospeso la promozione del suo romanzo
Sottomissione, dove ipotizza una Francia islamizzata nel 2022, e ha lasciato Parigi, nascondendosi per motivi di sicurezza. È l’ammissione paradossale che la libertà è a rischio e che la patria della laicità rischia di scomparire, proprio come immagina nel suo romanzo. Una laicità diventata sinonimo d’ateismo, una laicità 'triste', e quindi destinata alla sconfitta. Per vincere la guerra in cui ci vuole trascinare l’islamismo abbiamo bisogno di una laicità positiva che ammetta il confronto fra diverse identità religiose e culturali anche nello spazio pubblico. Solo così saremo davvero liberi e ilari.